INTERVISTA DI GABRIELE LANDI PER “PAROLA D’ARTISTA”

Ciao Armida, guardando al tuo lavoro la prima cosa che mi viene in mente sembra essere una tua necessità di suscitare nello spettatore la voglia di creare delle connessioni fra le immagini che usi nel tuo lavoro. E’ così?

Penso tu abbia colto un tasto molto sensibile del mio modo di lavorare, del quale io stessa ho preso maggiore consapevolezza attraverso le personali degli ultimi anni, progettate ad hoc per luoghi specifici intorno a progetti mirati. Indagare una tematica mediante prospettive diverse, spaziando dal disegno alla fotografia, dal video all’installazione,  credo sia un modo per attuare una riflessione che  diventa allestimento nello spazio e che si compie nella relazione fra le opere. In effetti – sto realizzando in questo momento – difficilmente lavoro ad un’immagine decontestualizzata da un progetto più ampio; forse per questo motivo procedo spesso per serie e work in progress, come se la singola immagine non bastasse a se stessa, ma si arricchisse nel rapporto e confronto con le altre.

E siccome mi piace condividere, coinvolgo lo spettatore in questo processo…

Hai mai raccolto le impressioni degli spettatori come una specie di restituzione?

Posso dire che mi incoraggia percepire una corrispondenza e sono sempre lieta di sapere che attraverso il lavoro possa passare una comunicazione. Per esempio nel caso dell’ultima mostra, La terra e le fantasticherie, in cui una sezione è dedicata alla mia ossessione per Marnie di Alfred Hitchcock, mi ha fatto molto piacere apprendere che molte persone abbiano manifestato il desiderio di vedere o rivedere il film per conoscere un capolavoro della storia del cinema, ma anche per meglio comprendere le suggestioni visive che mi hanno portato a sviluppare questo progetto.

Parlami del progetto su Marnie

Tutto nasce molti anni fa – ero una ragazzina – quando accendendo la televisione appare l’inquadratura iniziale, quella di una donna che cammina sulla banchina di una stazione con una borsetta gialla sotto il braccio. Avendo perso i titoli di testa non so nulla del nome del film e del suo autore, che scoprirò molto più avanti nel tempo. Però le immagini che scorrono sono ipnotiche e io ne rimango affascinata. Marnie è un leitmotiv ricorrente, una di quelle esperienze che aprono  gli orizzonti e accendono delle passioni. Un incontro culturale non meno importante di un incontro reale. La mia storia artistica è costellata di questi incontri a cui ho reso omaggio con elaborazioni visuali. Il progetto dedicato a Marnie è complesso, multimediale: è costruito immaginando una dimensione immersiva dove il colore rosso, legato al trauma della protagonista, diventa il focus attorno al quale ho rielaborato le immagini, lavorando sui temi del contatto, dei dettagli rivelatori, del sipario come soglia verso il mondo delle fantasticherie. Ma c’è anche una lettera realmente scritta a Marnie Edgar, spedita all’indirizzo indicato nel film e naturalmente ritornata al mittente. Una sorta di dialogo con personaggi letterari o cinematografici, così emblematici dell’umano e, paradossalmente, più reali delle persone in carne ed ossa, più vicini alla vita proprio perché estraniati dalla vita. E’ un gioco di immedesimazione al quale sono particolarmente predisposta.

Armida la fantasticheria viene dalla tua infanzia? Come fai a tenerla viva?

Credo che sia la fantasticheria a tenermi viva … ho un aneddoto legato alla mia infanzia che nella mostra ho voluto rievocare con l’esposizione del mio libro di fiabe, Le novelle meravigliose di H. C. Andersen. Ricordo perfettamente che era una mattina d’estate e mi annoiavo; avrei voluto giocare ma i miei amici non erano disponibili, oppure erano in vacanza. Così mi lasciai convincere da mia mamma a prendere in mano il libro che Santa Lucia mi aveva portato l’inverno precedente; l’avevo solo sfogliato limitandomi a guardare le immagini. Durante l’anno però avevo imparato a leggere. Così presi un plaid, il volume delle fiabe e mi sdraiai sotto l’abete del giardino di casa. Ero arrabbiata perché mi sembrava una sorta di castigo. Invece successe qualcosa di straordinario: piano piano le novelle meravigliose mi introdussero in un universo accogliente che alimentava la mia immaginazione; parevo immobile e inattiva ma dentro di me vivevo grandi avventure. Da quel momento la terra fresca sotto la mia pancia, che poi non è altro che l’esperienza diretta del mondo, ha sempre avuto un legame con le fantasticherie.

Nel dipanarsi di questo mondo che importanza hanno i materiali che impieghi per realizzare i tuo lavori?

I materiali sono molto importanti, così come gli strumenti e i formati delle opere. Mi piace sperimentare e sono affascinata dalle potenzialità delle materie, ma le ho sempre scelte in base al progetto vagliando varie ipotesi di impiego. Per esempio lavorando sulle stratificazioni ho spesso utilizzato materiali trasparenti, come il vetro, che ritorna in forma diversa nelle 8 gocce di Gustose e dolcissime: in questo caso l’esigenza di simulare la consistenza delle lacrime sedimentate nel tempo mi ha portato ad usare sculture di vetro pieno realizzate in una vetreria di Murano. Geografie umane invece consiste in una serie di sagome ritagliate da vecchi tappeti usati: l’idea della migrazione nella storia dell’uomo fino ai viaggi forzati contemporanei, la necessità di trovare un proprio posto nei tracciati delle mappe del mondo, mi hanno indotto a scegliere il tappeto come supporto che evoca, già di per sé, il tema della casa e del bisogno di casa. Certo occorre avere consapevolezza dei propri mezzi … non è possibile improvvisare. Il fatto di passare da un materiale all’altro, implica ogni volta il mettersi in discussione, l’affinare le proprie abilità affidando in certi casi la realizzazione del lavoro a persone più competenti: i miei video di animazione per esempio li ho sempre fatti montare in postproduzione ad un professionista del settore.

La dimensione del tempo che ruolo ha in quello che fai?

Un duplice ruolo, perché nel mio lavoro sono presenti la dimensione fisica del tempo e quella culturale. Uno dei miei maestri, Silvano Petrosino (protagonista del progetto In buone mani), è solito ripetere una frase molto interessante: “Il tempo dell’uomo ha un nome stupendo. Si chiama Storia, ed è fatto di errori, tentativi, spinte e rallentamenti.” Ho lavorato molto sul tema della memoria individuale che si relaziona nelle esperienze di vita con quella sociale /collettiva. Per questo sono affascinata dalla dilatazione del tempo e, forse, anche per questo amo molto il cinema. I miei video, soprattutto quelli degli ultimi anni, coincidono con un’unica inquadratura che si estende in loop, potenzialmente all’infinito. Pulses si sviluppa partendo da un dettaglio del volto della Madonna del Trittico dei sette Sacramenti di Van der Weyden, che ho animato esaltando con la luce le lacrime che scorrono sul suo viso fino a formare, con una lentezza ostentata, una costellazione. In questo caso il tempo si rapporta con la percezione che lo spettatore ha dell’immagine, nel suo estatico stare, semplicemente. Senza dubbio la visione del video mi ha dettato la produzione di Gustose e dolcissime, l’installazione nello spazio è nata proprio come conseguenza di questa visione del tempo.

In questa dilatazione lo spazio che ruolo gioca?

Lo spazio dell’immagine o lo spazio che la ospita? Nel mio caso parlerei di una relazione tra i due, visto che frequentemente la forma bidimensionale della superficie diventa volume nello spazio. Mi spiego meglio e ancora una volta ti faccio un esempio: i lavori recenti sulla sagoma e sul corpo nascono da un progetto del 2016, quando Fondazione PInAC mi aveva chiesto di partecipare ad una campagna in sostegno di una famiglia curdo-siriana con un’installazione che affiancasse la mostra dei disegni della stessa realizzati nel campo profughi. Con un gesto molto semplice ho trasferito alcuni dettagli, decontestualizzandoli e cambiando i formati, nella materia sensibile del tappeto, disponendo le sagome a terra e consentendo alle persone di entrare fisicamente nell’installazione a pavimento. Un modo diverso di vivere il rapporto con le immagini disegnate sui fogli degli album: ciò che avevo in mente era di permettere allo spettatore di attraversare la storia della famiglia con il proprio corpo mediante un’esperienza diretta. Io stessa ho cercato di scoprire il legame che esiste tra  una forma visibile e il sentimento che la sua proiezione comunica.

L’intervista, a cura di Gabriele Landi, è stata pubblicata il 28 agosto 2022 sulla pagina facebook di Parola d’artista al link https://www.facebook.com/paroladartista

CONVERSAZIONE CON ARMIDA GANDINI

di Gabriele Salvaterra

Dettagli (omaggio a Marnie), biro rossa su stampa fine art, cm 55 x 89

Cara Armida, vista l’importanza dei temi della memoria e dell’affettività nei tuoi lavori vorrei partire dal mio primo incontro con la tua opera: la mostra collettiva Petite Vérité del settembre 2010 alla Galleria Il Castello di Trento, a cura di Alberto Zanchetta. Riportandomi ai primi anni in cui frequentavo l’arte, non ti nascondo che questo riannodare le fila ha per me un sapore anche romantico e malinconico. Ma veniamo al sodo: la mostra, usando lo sguardo dell’infanzia, focalizzava l’attenzione sull’emergere di “piccole verità”, transitorie, frammentarie, contrapposte alle impossibili verità totalizzanti cui spesso andiamo alla ricerca con scarsi risultati. Condividi ancora questo sguardo ingenuo e questo amore per (diciamo così) la parzialità delle cose?

Mi sembra passato un secolo da Petite Vérité, mi sovvengono alcune immagini, le persone incontrate, l’atmosfera accogliente della Galleria Il Castello che sapeva un po’ di casa, perfetta per una mostra sulle piccole cose del quotidiano visionario dei bambini. Anche se per me rievocare l’infanzia non ha mai avuto un significato nostalgico, piuttosto identitario. Sullo sfondo dei miei lavori c’è sempre una domanda sulla condizione e l’identità attuali, di come si sono definite nel tempo in rapporto al passato e alle esperienze che ognuno di noi attraversa nella propria vita, anche quelle apparentemente transitorie, frammentarie. In generale sono più attratta dalle singole storie che dalla grande storia. Nella totalità di un’immagine seleziono i dettagli, i particolari sono estremamente rivelatori, cambiano la percezione delle cose, a volte rendono perturbante ciò che a prima vista sembra privo di interesse. Ciò che Roland Barthes chiama “punctum” ne La camera chiara, quel segno particolare della fotografia che trafigge senza possibilità di difesa… è quello che cerco quando curioso negli album di famiglia e che, indipendentemente da me, innesca una serie di associazioni; o il semplice gesto di una carezza di una bambina, realmente accaduto, che mi ha portato a elaborare il lavoro dedicato ai Padri della cultura. Ma l’elenco potrebbe continuare… se ci penso ho la sensazione di aver sempre lavorato in questo modo, fin dall’inizio. La mia tesi di laurea dedicata a Eric Rohmer iniziava con un suo pensiero in cui affermava – cito a memoria – che la grandezza del cinema sta nella capacità di rendere epiche le azioni di ogni giorno e le cose comuni. E qui potrebbe cominciare un lungo discorso sullo sguardo

Dunque, il modo con cui guardiamo le cose le cambia? La frase di Rohmer mi fa pensare alle tue fotocomposizioni, se così possiamo chiamarle, la serie insomma de I luoghi della memoria (dal 2000). In effetti più che una fascinazione per l’infanzia tout court è forse un tentativo di creare interferenze tra storie private un po’ dimenticate nei cassetti di casa e una dimensione a suo modo epico-collettiva, in questo caso rappresentata dalle memorie di fiabe e leggende. È così?

Si, io credo di si, che le cose cambino in base alla prospettiva con cui le guardiamo e illuminiamo, come già affermava Aristotele: “Le cose non sembrano le stesse a chi vuol bene e a chi odia, né a chi è adirato o a chi si trova in stato di calma, bensì appaiono del tutto differenti o in gran parte differenti”.

Per quanto riguarda Rohmer, mi fa molto piacere che tu l’abbia collegato ai progetti degli anni 2000, in effetti era proprio ai suoi personaggi che pensavo quando realizzavo le scatole stratificate de Il bosco delle fiabe, quelle che tu chiami fotocomposizioni; nessuno aveva mai usato questo termine, che in effetti però rappresenta bene il processo di lavoro. In quel periodo io avevo la necessità di fare un viaggio a ritroso nelle immagini della memoria, mia e delle persone che mi circondavano. Nello stesso tempo sentivo l’esigenza di uscire dal frammento personale per trovare una forma più universale nella quale l’interlocutore potesse riconoscersi. Smontare e ricomporre la fotografia dell’album di famiglia, decontestualizzando il protagonista dal suo ambiente privato, non mi sembrava sufficiente; il ricorso alla fiaba diventava così uno strumento per trasferire l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale mediante la presenza di un altro livello linguistico, dato dal breve frammento di testo e dall’accostamento della persona a un personaggio della fiaba, quindi a una figura rappresentativa di un determinato stato dell’umano. Si trattava di trovare un equilibrio tra due dimensioni, quella reale-privata e quella simbolica-culturale.

Questa serie ci riporta agli anni del tuo ingresso nel mondo dell’arte. Scorrendo la tua biografia, tra il 1996 e, con più continuità, dal 1999 si attestano infatti le prime mostre. Quali erano i tuoi riferimenti culturali in quel periodo e con quale contesto ti confrontavi? Ti confesso che spesso ho la sensazione di appartenere a una generazione che “si è persa qualcosa” a livello di fermento, inoltre considero il ventennio 2001-2020 (tra il crollo delle Torri Gemelle e l’attuale pandemia) come un periodo di riflusso e perdita di diverse conquiste dei decenni precedenti. In particolare rispetto agli anni Novanta che, sulla scorta del crollo del muro di Berlino, mi sembrano un decennio proiettato nell’ottimismo e nella crescita. Era anche la tua sensazione?

Gli anni Novanta sono stati un decennio molto fertile e innovativo dal punto di vista artistico e io, pur in maniera del tutto decentrata, ne ho respirato l’atmosfera. Sono gli anni di produzioni d’arte successivamente teorizzate nei testi di Nicolas Bourriaud Estetica relazionale e Postproduction. Ma anche quelli di Freeze e Sensation. In quel periodo post-diploma a Brera, cercavo di mettere insieme i pezzi di un puzzle che aveva tante anime diverse e quindi molte possibilità combinatorie, seppure in antitesi, perché tentavano di far dialogare la tradizione con la sperimentazione, il disegno per esempio con lo scontorno digitale. In effetti mi sentivo un’identità multipla che oscillava tra gli opposti e non è un caso che mi sia riconosciuta  in una pagina delle Memorie di Adriano, in cui l’Imperatore, perfettamente cosciente dei caratteri di chi gli ruota attorno, si interroga sulla propria personalità, definendola informe. Ne è nato un progetto – e una mostra – che raccontava della matrice letteraria di molti miei lavori.

Sicuramente già in quegli anni è emersa la mia propensione a rivisitare materiale visivo già esistente, dalle immagini della storia dell’arte a quelle del mondo della comunicazione e alle fotografie degli album di famiglia. Anche se la scelta non è mai indifferenziata, non si tratta di fare qualcosa con ciò che si ha a disposizione in un mondo saturo di oggetti e di immagini, ma di lavorare su specifiche immagini, quelle che catturano la mia attenzione, che mi commuovono, che cambiano il mio modo di guardare il mondo… e che mi piace condividere.

Da un lato la multimedialità – penso a Cattelan, Whiteread, Gonzáles-Torres, Beecroft, Barney, Neshat ad esempio – dall’altro l’attitudine appropriativa che mi piace definire post-Richteriana, postmoderna o, più correttamente, come dici tu, relativa alla Postproduction di Bourriaud. In effetti nel tuo lavoro il recupero di repertori di forme e testi culturali esistenti ha sempre come fine ultimo la creazione di una piattaforma di condivisione e relazione che è un po’ quello che segna il passaggio dalla scaltra citazione postmoderna alla categoria che ha in mente lo studioso francese. Alan Jones parla invece (riferendosi agli anni Ottanta) dell’artista che, come una gazza ladra, sa bene dove andare a rubare, perché ciò che sgraffigna in definitiva rispecchia comunque la sua identità in modo difforme ma autentico. Al di là delle specifiche immagini che riutilizzavi a quali artisti guardavi in quegli anni a cavallo del millennio?

Curiosa la parola sgraffigna… mi viene in mente il più grande tra i ladri dell’arte del passato, Pablo Picasso, quando sosteneva che l’artista geniale non copia, ruba!

In quel periodo ero molto interessata al disegno e guardavo, per de-formazione accademica (il mio professore a Brera era stato Beppe Devalle) a David Hockney disegnatore, ma anche teorico, studioso dei segreti nascosti degli antichi maestri e intrigato dalle nuove tecnologie. L’altro artista che mi affascinava molto era William Kentridge: un autore a 360° che attraversa molti linguaggi espressivi e che privilegia il disegno per la costruzione dei suoi intensi corti animati. Sicuramente pensavo a Kentridge durante la progettazione di Noli me tangere, il primo video in cui ho realizzato l’idea di mettere insieme disegno e fotografia dilatando l’immagine nel tempo. Inoltre, per quanto riguarda Il bosco delle fiabe, il riferimento era agli specchi di Michelangelo Pistoletto. Forse ai tempi non ne ero del tutto consapevole, ma ora posso dire che sia lo scontorno che la ricerca di profondità prospettica delle scatole nascevano anche da quella suggestione.

Beppe Devalle è un artista di altissima levatura, per lui disegno e studio dal vero sono centrali nello sviluppo di un lavoro che poi può diventare anche molto concettuale ed esistenziale. Com’erano le sue lezioni a Brera e quanto peso ha avuto la sua personalità nell’importanza che il disegno continua ad avere nelle tue opere?

Nella seconda metà degli anni Ottanta Devalle proponeva un ritorno alla pratica del disegno dal vero come processo fondamentale dello sguardo, dedicandosi egli stesso alla copia dei modelli a fianco dei suoi concentratissimi studenti. L’aula di Devalle era unica a Brera: pulita, ordinata, munita di tavoli da disegno funzionali; un ritorno alla “regola” comportava rigore, metodo e un’organizzazione disciplinata dello spazio. Mi ricordo la presenza di calchi della statuaria classica recuperati dai corridoi dell’accademia, in particolare il gesso delle gambe di Canova sul quale, frastornata e confusa, ho passato l’inizio del primo anno di corso:  non riuscivo a focalizzare che disegnare la posa di quella statua significava finalmente vederla. E riconoscerla nella realtà. Non si può amare il lavoro di Bruce Nauman legato al contrapposto  (visitando la mostra a Punta della Dogana mi sono sentita a casa) se non si ama il movimento che gli scultori greci hanno conferito alle loro opere nel tentativo di renderle vive. Questo è solo un esempio, ma credo dia la misura del grado di apertura che, in prospettiva, mi hanno dato le lezioni di Beppe Devalle.

Vorrei ricordare che ho avuto la fortuna di frequentare il suo corso nel periodo in cui Alberto Garutti era suo assistente. Una presenza sfuggente. Forse si sentiva fuori luogo, ma in sintonia con chi tra i suoi allievi desiderava avere un punto di vista diverso sul fare arte.

E infatti nel tuo caso il disegno si relaziona con altri frammenti visivi e, correggimi se sbaglio, in un certo senso funziona come strumento da un lato guastatore (perché pone opposizioni e limiti alle figure) e dall’altro sviluppatore di immaginario (perché non ancorato a una realtà fattuale). Eppure in tutto ciò stupisce forse che tu sia stata spesso coinvolta in rassegne sulla fotografia, anche di carattere ordinatorio/antologico sulla situazione italiana degli ultimi anni. Penso alla rassegna di Gallarate del 2009 o a Effetto Man Ray #2 del 2017 curata da Piero Cavellini. Insomma la tua “etichetta”, con tutti i limiti che hanno le etichette, è di stampo fotografico…

In realtà mi definirei un’artista che utilizza la fotografia allo stesso modo di altri mezzi, il disegno, il video, l’installazione. Non sono una fotografa nel senso classico del termine e la mia partecipazione al Premio Gallarate del 2009, infatti, prevedeva immagini elaborate in postproduzione del set di Noli me tangere: degli ibridi di live action e disegni di uccelli sovrapposti in fase di montaggio. La stessa cosa vale per la mostra curata da Piero Cavellini a Spazio Contemporanea, per la quale ho selezionato una serie di opere tra video, collages digitali e immagini incise in relazione alla personalità e al genio di Man Ray. È vero però che spesso la fotografia è un punto di partenza del mio lavoro, non lo scatto fotografico, ma l’immagine trovata, incontrata sfogliando libri e riviste, album e archivi, banche dati e vecchie pellicole. Non la scelgo in base a criteri estetici, ma in funzione del progetto che sto sviluppando: durante il percorso la fotografia si modifica formalmente e assume nuovi significati.

A proposito ancora di immagini trovate e reimpiegate, dobbiamo parlare di cinema storico: un serbatoio per te inesauribile di immaginario, passione, innamoramento. Trovo negli artisti visivi così legati alla Settima Arte (penso al pittore Luca Coser oltre che a te) una concezione romantica e un po’ malinconica delle immagini in movimento, corrispondente alla possibilità – ancora sentita fino agli anni Sessanta – di riuscire a fare la Rivoluzione attraverso un’estetica anche molto popolare. È una mia lettura forzata o ti potresti riconoscere in questa visione? Cos’è per te il cinema?

Appartengo a quella generazione cresciuta con Fuori orario. Alla maniera di Enrico Ghezzi per me il cinema è la “magnifica ossessione”. In quegli anni l’unica alternativa alla sala cinematografica era la televisione e io inseguivo la programmazione di Rai 3 per recuperare i film che hanno fatto la storia del cinema, rimanendo alzata fino a notte tarda per registrare i capolavori che Ghezzi si ostinava a mandare in onda programmaticamente fuori orario. Una vera sfida che metteva a dura prova la dedizione dei cinefili… In attesa dei passaggi TV allora l’unica alternativa era quella di prenotare un mini schermo alla Sormani per poter vedere quei film leggendari, anche in funzione della mia tesi, della quale era relatore Francesco Ballo. L’immagine di me stessa seduta davanti al piccolo televisore mentre visiono i film di Rohmer e dei suoi maestri (Murnau, Rossellini, Hawks, Hitchcock, ecc.), con le cuffie che mi isolano dagli altri fruitori della biblioteca, immobile davanti alle immagini in movimento, rappresenta molto bene il mio rapporto con il cinema come “finestra sul mondo”. Lo è stato fin dall’inizio, diciamo da quando ho preso consapevolezza che quelle inquadrature catturavano la mia attenzione dissociandomi dalla realtà e rivelando, del reale, qualcosa che sfugge alla visione diretta. Improvvisamente la vita era quella organizzata nello spazio e nel tempo del campo della proiezione. In realtà dovrei dire della scatola della televisione, perché la prima volta che mi sono sentita sedotta da un film fu quando vidi poco più che bambina Marnie di Alfred Hitchcock e ciò diede inizio appunto alla magnifica ossessione.

Pensi che Marnie sia così centrale nella tua passione e nel tuo sviluppo artistico solo perché è stata un’esperienza di iniziazione cinefila o anche per caratteristiche intrinseche della sua estetica? Poi parli di cinema come “finestra sul mondo” ma la predilezione di Hitchcock per l’irrazionale e l’insolito può forse far pensare che sia anche una scappatoia nell’immaginario. Quale dei due binari segui con più dedizione?

Quando parlo di una cornice sul reale, non intendo la realtà come dato ultimo oltre il quale non si possa andare, ma un punto di partenza per una trasformazione di senso prodotta dal cinema come linguaggio, strumento estetico di rivelazione di qualcosa che altrimenti non sappiamo o possiamo guardare. Ma soprattutto vorrei sottolineare la capacità magnetica del cinema di attirarci verso quella finestra dove tutto passa e, paradossalmente, dove si è più vicini alla vita proprio perché si è estraniati dalla vita.

Il mio incontro con Marnie rappresenta un evento del tutto inaspettato; parlo di evento come esperienza che ci attraversa oltre a qualcosa che ci costringe a cambiare punto di vista sulle cose (nello specifico mi ha aperto gli occhi sul fascino ipnotico che può avere l’immagine). Ero troppo piccola per comprendere l’estetica di Hitchcock che non conoscevo. Vorrei raccontare un aneddoto significativo che riassumo brevemente: una sera, dopo cena, accendiamo (io e mia mamma) la tv della cucina e appare un’inquadratura di un dettaglio di una borsa gialla; il campo si apre e si vede una giovane donna ripresa di spalle che cammina su una banchina di una stazione in procinto di prendere un treno. Avevamo perso la sigla per pochi secondi, quindi anche il nome del regista… ma io ne fui catturata. Non ho più dimenticato il giallo della borsetta di Marnie, ma anche il rosso associato al trauma della protagonista che tinge lo schermo quando il ricordo viene evocato. Il film è pieno di grandi intuizioni visive, Hitchcock ha fatto sperimentazioni coraggiose sul colore, oltre che sullo spazio da filmare; tutto questo insieme ha rappresentato qualcosa di potente che ha dato inizio alla mia dipendenza schizofrenica dal cinema.

La conseguenza prevedibile di questo tuo racconto sarebbe una carriera da regista… come hai scelto poi di convogliare questi stimoli “magnetici” in un lavoro nelle arti visive classiche?

Sono attratta dal cinema, come dalla letteratura, ma una cosa è l’entusiasmo, un’altra il talento – e anche le competenze – per poter trasformare una passione in una professione. Non mi ha mai sfiorato il pensiero che da grande avrei potuto fare fatto la regista o la scrittrice, mentre durante l’ultimo anno di accademia si è insinuata in me l’idea che il mio interesse per  le arti visive potesse diventare un mestiere. Anche con la video arte ho avuto un rapporto controverso inizialmente, finché non ne ho compreso le specifiche linguistiche e che questo linguaggio mi avrebbe dato delle possibilità di sperimentazione.

Credo che l’arte non racconti la vita, ma l’esperienza di vita, cioè qualcosa di più complesso e articolato: quando uno lavora a un’immagine ci butta dentro tutto ciò che ha vissuto e sentito, ciò che ha visto e possiede e che culturalmente ha sperimentato. Destrutturare l’immagine è una pratica che mi accompagna da sempre e partire dal cinema non è diverso rispetto ad altri linguaggi. Per esempio nel progetto dedicato a Marnie ho voluto, tra le altre cose, rendere omaggio alla prima inquadratura del film, intervenendo sulla forma e la riconoscibilità della borsetta gialla: da una parte è negata come oggetto, dall’altra è enfatizzata come segno che l’obiettivo della macchina da presa isola sul fondo neutro.

Il tuo approccio al cinema e alle immagini che recuperi è in qualche maniera astratto e simbolico. Mira più al carattere assoluto, trascendente, di questi spezzoni che al loro valore meramente narrativo o citazionista. Lo dici spesso e l’episodio della borsetta forse può esserne l’esempio lampante. Quali sono, se dovessi individuarli, i temi e i simboli che evochi con questa pratica?

Se la missione dell’artista è quella di scoprire simboli, i maestri ci insegnano che la nostra grammatica può essere reinventata ogni giorno. Questa è una grande lezione che ci viene dall’arte e dalla cultura… confrontarci con il passato ci aiuta a nominare le cose e a fare chiarezza, almeno a tentare.

I temi che indago sono legati all’esperienza, agli incontri con persone e situazioni che mi coinvolgono emotivamente. Ti faccio qualche esempio: per molto tempo ho lavorato sull’infanzia, perché è nei primi anni di vita che si definiscono le basi dell’identità: temi come memoria e relazione con l’altro e con il mondo ritornano e visivamente si formalizzano attraverso la stratificazione, la trasparenza, l’esperienza del vuoto. Ho riflettuto molto sul concetto di limbo, uno spazio privo di coordinate spaziali e temporali nel quale ci muoviamo senza riferimenti e dove tutto può accadere, proprio come in una pagina bianca. Questo mi ha portato a confrontarmi con i temi del limite, muro, griglia, soglia: da qui sono nati i lavori sulla sagoma e i più recenti sul corpo (Pubblico dominio/Geografie umane che riprendono, il primo, sequenze di due film di Méliès e, il secondo, opere della storia dell’arte legate al tema del viaggio e dello spostamento), il vuoto e la corporeità, il margine e il tentativo di sconfinamento della vita che scorre. Sul concetto di vuoto mi frulla da sempre in testa una frase di Camille Claudel (che è anche una delle mie Madri): “C’è sempre qualcosa che mi manca”. Anch’io credo che l’arte sia una risposta a quello che ci manca, tenendo presente però che è la mancanza ad alimentare il desiderio.

Insegnamento dei maestri, padri e madri spirituali, citazionismo consapevole e non ironico. Lo definirei un parlare di se stessi utilizzando le parole e le immagini altrui, quindi ancora un’attitudine postmoderna, come dicevamo prima, ma declinata in un senso molto delicato e personale. Nel tuo caso, poi, la specificità penso che risieda nel fatto che questi rapporti con i giganti del passato non possano essere derubricati sotto il segno della semplice influenza estetica ma diventino parte essenziale del tuo lavoro. Lo dico in altri termini: è come se dichiarare il tuo debito o il tuo innamoramento estetico fosse già in sé opera, elemento linguistico. È così?

Sì, è possibile.

Intervista di Gabriele Salvaterra in occasione della mostra La terra e le fantasticherie, 2022, pubblicata sul catalogo monografico ARMIDA GANDINI edito da Skira e supportato da Fondazione Brescia Musei.

CON ARMIDA GANDINI, VIAGGIO “DI MOTO INFINITO” ALLA COLLEZIONE PAOLO VI, 2019

Pubblico dominio, 2019, video installation, Museo Paolo VI, Concesio (Bs)

Intervista di MariaCristina Maccarinelli per la rivista Espoarte.net, 15 Maggio 2019

Dopo l’incontro avuto in occasione del portfolio issue di Espoarte #105, torniamo a dialogare con l’artista bresciana Armida Gandini, vincitrice della seconda edizione del Premio Paolo VI per l’arte contemporanea e protagonista della mostra  Di Moto Infinito allestita nello spazio della grande sala ipogea dell’omonimo museo di Concesio (BS):

La mostra DI MOTO INFINITO, inaugurata il 30 Marzo e visibile fino al 1 giugno, rappresenta la seconda fase del progetto con il quale hai partecipato alla seconda edizione del “Premio Paolo VI per l’arte contemporanea”. Dopo la mostra collettiva Passaggi, della primavera scorsa,che ti ha visto protagonista con gli altri sette artisti finalisti: Stefano Crespi, Marta Cristini, Ettore Frani, Albano Morandi, Daniela Novello e il duo composto da Corrado Saija e Giorgio Presti, sei stata individuata dalla giuria come vincitrice con il video Pulses per la “qualità formale e l’intensità emotiva dell’opera”, ma anche, come si legge nelle motivazioni, per “la poetica delicatezza e la vivacità linguistica” con le quali avevi presentato il progetto della tua mostra…ci racconti come è nato il tuo progetto?

Il progetto nasce da un lavoro del 2016, pensato in occasione di una campagna a favore di una famiglia di profughi curdo siriani ospiti nel campo di Idomeni in Grecia. Per sostenere la loro causa Fondazione PInAC aveva organizzato una mostra dei disegni realizzati dalla famiglia e aveva chiesto a me di pensare un’installazione artistica che accompagnasse l’esposizione: ho proposto una serie  di sagome di alcuni dettagli dei disegni, ritagliate in vecchi tappeti usati, trasferendo le immagini nello spazio e permettendo al pubblico di camminare fisicamente tra le forme; un modo per attraversare la storia della famiglia in prima persona. Di Moto Infinito è un’evoluzione di questo lavoro sul tema del viaggio inteso come un aspetto costitutivo della condizione umana. 

In questa mostra emergono tematiche che hanno un grande legame con l’attualità, con la realtà che la cronaca ci racconta, con un quotidiano che spesso viene anche strumentalizzato. I confini che diventano sagome e scontorni, il viaggio in tutte le sue forme e implicazioni compresa la migrazione, l’identità dell’individuo ma anche di un popolo, sono solo alcuni dei temi presenti, eppure, sebbene ci siano dei rimandi precisi a fatti o persone, non si ha mai la percezione di una tua volontà di indagine realistica ma piuttosto un tuo intervento atto a filtrare per suggerire una lettura più ampia ed elevata del tema, per renderlo universale…

Io penso che l’arte non racconti la vita, ma l’esperienza di vita, che è molto più aggrovigliata e complessa. Il tema dell’immigrazione è un fenomeno ampio e articolato, al quale non si può rispondere con semplificazioni.  Per quanto riguarda poi il mio approccio al progetto ho sempre pensato che non ci si debba sforzare di essere cronisti della contemporaneità, anche perché lo si è per principio. Credo che la realtà non entri mai nell’opera senza filtri. Quello che mi interessa è lo spostamento che si crea quando il privato incontra l’altro, il mondo, trasformando la contingenza in qualcosa di universale. Di conseguenza ciò che ho tentato di fare per questa mostra è stato appunto ampliare il  concetto di viaggio da immigrazione a migrazione, che è il medesimo movimento ma colto nella sua circolarità. Ciò ha significato per me estendere la riflessione alla storia dell’uomo, attraverso la sua cultura.

Il tappeto, oltre a rappresentare simbolicamente una storia, una cultura, un vissuto, che viene trasferito nelle sagome di Geografie Umane, diventa protagonista anche a parete attraverso il suo negativo con lo scontorno, questa tua scelta trovo abbia una resa molto forte: il bianco del fondo amplifica l’assenza della sagoma, rendendo, a sua volta, una non-presenza un soggetto nuovo e altrettanto significativo …    

La sagoma è un elemento ricorrente nel mio lavoro, così come il bianco, il limbo bianco privo di coordinate spaziali e temporali, un vuoto in potenza, che è negazione e mancanza, ma nello stesso tempo una pagina sulla quale tutto può essere scritto e tutto può succedere, come nella vita … nei video Noli me tangere, Io dico che ci posso provare, Muovo sonnambula al mondo, che costituiscono La trilogia del limbo, lo spazio bianco fa da cornice alle azioni dell’esistenza in senso metaforico. Ho un rapporto ambivalente con il bianco e trovo che il gesto di azzeramento possa in alcune situazioni diventare il presupposto per una ripartenza. Nel caso dei tappeti in mostra il pieno e il vuoto si rincorrono in un gioco di stratificazioni e rimandi, in dialogo con la storia dell’arte, i testi letterari e le narrazioni del presente.

Mi vorrei soffermare sull’opera Di Moto Infinito, che dà il titolo alla mostra, una grande bolla (semisfera in plexiglass) collocata in una zona centrale della sala, che attraverso le sequenze di tre figure e il loro movimento ci narra episodi legati all’acqua e al mare… ci spieghi meglio perché hai scelto proprio questi protagonisti e perché il fondo è rappresentato da una superficie lunare?… 

Di Moto Infinito  raduna tre momenti della storia dell’uomo, lontani nel tempo e nello spazio, rappresentati da tre figure implicate in storie di mare: il mare degli inferi della donna salvata da Cristo nell’affresco trecentesco della chiesa di Chora in Turchia; il mare biblico con il personaggio del quadro di Luca Giordano raffigurante Miriam e le donne ebree al passaggio del Mar Rosso e il mare contemporaneo del migrante soccorso, tratto da una recente fotografia di cronaca. I disegni sulla calotta della semisfera riassumono in un’unica immagine  l’andamento ciclico della vita degli uomini, ora come nel passato remoto coinvolti in storie di viaggi salvifici, forzati, liberatori. I tre personaggi galleggiano su una superficie trasparente – simbolo della fragilità del pianeta –  e ruotano attorno alla fotografia della luna sottostante. Questo perché il lavoro gioca sul ribaltamento prospettico: il cielo, rappresentato dalla luna,  è posto nella parte inferiore  e sembra evocare il mare.

Attraverso le opere si legge un continuum che assume di volta in volta manifestazioni diverse, linguaggi diversi, espressioni artistiche che spaziano dall’arte alla letteratura al cinema. Questo approccio all’opera d’arte non ti è nuovo…

In questa mostra l’approccio che tu descrivi è ulteriormente accentuato … sono solita affrontare il progetto cominciando da prospettive diverse, sia per quanto riguarda gli strumenti di lavoro che i riferimenti linguistici. Il tema da cui sono partita  è molto complesso, non solo un fatto d’attualità con delle priorità date dall’emergenza … L’arte, la grande letteratura, la storia, ci possono aiutare ad aprire lo sguardo su un fenomeno così esteso che merita riflessioni più ampie. In più mi trovavo a pensare l’allestimento per un Museo che conserva centinaia di opere ispirate dal Vecchio e  Nuovo Testamento, che sono ricchi di episodi riguardanti lo spostamento umano, dall’esodo alla fuga in Egitto. Basterebbe allargare i propri orizzonti culturali per avere delle risposte alle paure correlate al movimento delle persone, alla labilità dei confini, all’incontro con l’altro da noi. Trovo interessante questo desiderio – o necessità –  che porta l’esperienza a misurarsi con altri tempi, altri linguaggi, altre modalità e contesti. Così anche il mio lavoro è diventato una sorta di viaggio nella storia dell’arte e dell’immagine cinematografica, in dialogo con alcune opere che nel corso dei secoli hanno parlato  di viaggi orizzontali, ascensionali o cosmici; un’altra testimonianza di quanto sia riduttivo cercare di dare delle risposte senza approfondire la questione.

Il video Pubblico Dominio chiude idealmente il percorso della mostra attraverso sequenze di film e documentari in bianco e nero che ci rimandano alle origini del cinema, ci mostra viaggi reali ed immaginari che scorrono all’interno dei confini di sagome umane … perché questa scelta?

Il video che presento è un’escursione nel cinema delle origini,  due film di Méliès relativi a viaggi spaziali e impossibili, alternati ad un documentario  sul  sistema dei pianeti del 1925. Le sequenze filmiche scorrono all’interno di sagome tratte da dettagli di opere d’arte o disegni di bambini profughi in campi di accoglienza. Hanno confini definiti e ben delineati, sono territori chiusi, ma la campitura che ritagliano è una zona fluida, vibrante, in movimento, difficile da definire (come del resto l’identità che è sempre sfaccettata). Credo che l’idea di fondo nasca dalla riflessione che ogni progetto di ricerca – l’uomo è in costante cammino – si manifesti nel passaggio che ognuno di noi sviluppa nel proprio corpo. Il fluire del pensiero nella materia transita nello spazio chiuso, ma se c’è movimento  i confini non creano attrito. Nella mia visione il corpo è un’entità dinamica e fluida; allo stesso modo all’interno di un’area definita da un confine preciso la vita scorre, transita e il territorio è di dominio pubblico. La terra è un dominio pubblico. La volta celeste è un dominio pubblico. E così la cultura ci appartiene e consente di essere attraversata.

Intervista di MariaCristina Maccarinelli per Espoarte in occasione della mostra del Premio Paolo VI per l’arte contemporanea, 2019

Pubblico dominio, Arteam Cup Prize 2020, Fondazione Dino Zoli, Forlì

Armida Gandini in conversazione con Marco Nember, 2016

Casing, 2016, mixed media on paper, cm 29 x 21

L’evoluzione artistica di Armida Gandini si è arricchita nel corso del tempo di simboli divenuti oggetto della riflessione dell’artista in differenti accezioni e declinazioni. In uno spazio privo di coordinate la presenza di una rete assume un’importanza fondamentale nel definire non solo la porzione di piano interessata, ma anche e soprattutto nel dialogare con la presenza umana che anima l’opera. Come si è trasformata negli anni la tua visione di un simbolo tanto potente quanto equivocabile?

La domanda coglie nel segno il concetto di fondo della mostra. Se nel 2009 la rete era metafora di un ostacolo da fronteggiare e superare, oggi è anche impalcatura a cui appoggiarsi. Il limbo illimitato nel quale si muove la protagonista di Io dico che ci posso provare, privo di coordinate, si trasforma in uno spazio astratto più labirintico di un labirinto reale. Ho realizzato che l’apparente libertà del bianco può diventare spaesante, mentre il confronto con il mondo tangibile si fa più concreto nel momento in cui si materializzano le griglie delle barriere. Per questo non si tratta solo di elementi esterni che segnano un territorio, delimitano dei confini e costruiscono dei luoghi, ma di strutture che sostengono conferendo al corpo e al suo pensiero un ‘ordine’. In sostanza dei punti di riferimento che rendano possibile il nostro orientamento nel mondo.

La complessità del tuo pensiero si mostra attraverso opere molto diverse tra loro: dal disegno al video, utilizzi una gamma di output in grado di costituire di per sé un valore aggiunto inconfutabile al continuo processo di investigazione di realtà personali ed immaginario collettivo da sempre alla base del tuo lavoro.

Si, è così (ora che ci penso mi viene il dubbio che anche questa sia una conseguenza della mia liquidità corporea e mentale…). Ho una propensione ad affrontare il progetto da prospettive diverse, anche dal punto di vista linguistico; se il disegno è alla base del mio modo di lavorare spesso il processo sconfina nella fotografia e nel video. Devo specificare che questa mostra nello specifico rappresenta una sintesi nella quale confluiscono varie ricerche passate: non è un caso infatti che ritornino le mie alter ego con le trecce, le donne del progetto ‘Mi guardo fuori’, le immagini degli album di famiglia e le stratificazioni dei ‘Luoghi della memoria’, nei quali il disegno si sovrappone alla fotografia e il corpo si identifica con l’ambiente in cui è contestualizzato.

Avventurarsi seguendo le tue coordinate permette un viaggio intimo e colmo di spunti riguardanti la tua ispirazione e i tuoi ripensamenti. Come hai scelto queste immagini, accomunabili al tuo DNA morale e culturale?

Di fronte a certe immagini scatta un meccanismo di identificazione e ci si riconosce; immediatamente riaffiorano memorie, esperienze vissute, avvenimenti passati. Nella fotografia di Frida Kahlo per esempio il dettaglio delle trecce mi ha confermato, potenziandola, la sintonia per la quale già prima l’avevo inserita nel gruppo delle madri della cultura. Se c’è una donna che ha lottato una vita per tenersi in piedi nonostante tutto quella è Frida. Mi sono chiesta cosa resta quando il corpo viene negato (perché fragile, perché ammalato, perchè sofferente o a disagio) senza una base strutturale che ci faccia da scheletro… La serie di ‘Coordinate’ è un tentativo di risposta a questa domanda. C’è un’immagine di cui ti vorrei parlare – tu conosci la mia ossessione per il cinema e quanto sia stimolante per me – che mi ha accompagnato durante il lavoro apparendomi davanti quando meno me l’aspettassi: sicuramente ricorderai il piano sequenza che chiude il film di Claude Sautet ‘Nelly & Monsieur Arnaud’, con una Beart bellissima e altera che cammina tra la folla di Parigi a testa alta, reagendo così all’abbandono … credo che Sautet sia stato una fonte di ispirazione per questa mostra.

Il cinema costituisce una fonte di ispirazione inesauribile per te sotto diversi punti di vista estetici e morali. In che modo i film di Sautet ti hanno aiutato a plasmare il contenuto della mostra?

Sautet è uno dei miei padri e i suoi film scorrono di fronte allo spettatore come se assistesse allo svolgersi di sequenze di vita reale, quelle che ti trovi davanti guardando dal finestrino di un autobus o comodamente seduto su un divano. Nelle ultime pellicole di Sautet la presenza di Emmanuelle Beart va anche interpretata come un omaggio all’indimenticata musa Romy Schneider, considerata dall’attrice più giovane un modello di ispirazione di femminilità oltre che professionale. Di Sautet mi commuove lo sguardo sulla quotidianità, ma ancora emozionale, un poco all’antica, elegante e disincantato; ma anche il gioco di autocitazioni, rimandi, ritorni personali… oserei dire che le trecce che accomunano le mie protagoniste corrispondono allo chignon delle sue. Di questi autori, Sautet ma anche il mio amato Rohmer, mi ha sempre affascinato la leggerezza, in realtà apparente e sostenuta da un meccanismo stilistico impeccabile, e la mancanza di teatralità.

In ‘Stand Up’ il tuo intervento su immagini bidimensionali ne scopre le qualità architettoniche suggerite dalla composizione dell’inquadratura: la tua rilettura le trasforma in sculture inattese, imprevedibili nella loro fragilità. Da dove nasce questo tuo desiderio d’intervenire sulla fotografia?

Da sempre la fotografia è un punto di partenza del mio lavoro: il più delle volte si tratta di immagini non scattate da me, ma trovate negli album di famiglia, in banche dati, incontrate sfogliando libri e riviste. Decontestualizzarle e inserirle in nuovi ambiti è una pratica che adotto spesso, scontornando, disegnando, in questo caso incidendo. Spostare il piano delle fotografie da orizzontale (quindi bidimensionale) a verticale è l’intento che mi ha mosso in questi ultimi lavori; un gesto molto semplice per tentare di far ‘stare in piedi’ ciò che è sdraiato, a maggior ragione perché fragile, quasi inconsistente.

Gli involucri disegnati di ‘Casing’ al tempo stesso custodiscono e accentuano, ridefinendo con passione immagini di forte valore espressivo, inserendosi con naturalezza nel tuo percorso artistico.

Devo dire che la serie di ‘Casing’ è una ricerca abbastanza isolata nel mio percorso, un tentativo di dare solidità a corpi evanescenti colti in fotografie commerciali, quelle che si scorrono più o meno distrattamente sfogliando le riviste in una sala d’attesa. Non si tratta di un lavoro a sfondo antropologico, nonostante potrebbe apparire visto che parte da immagini di tendenza. Ciò che mi interessa è una sperimentazione sulla forma stratificata della griglia che supplisce alla rarefazione del corpo nel formato standard della pagina stampata. Un’altra occasione per guardare al progetto da una prospettiva diversa.

Dalle tue parole mi sembra apparire con chiarezza un’indomita volontà di combattere, costruire, crescere in grado di permeare completamente la tua opera, in ogni sua forma. La lettura e la ridefinizione dell’universo che ti circonda credo si stia riformulando: ai miei occhi non risulta solo come la conclusione di un processo, quanto piuttosto parte fondamentale di un ragionamento in divenire, il che permette costantemente la possibilità di ricontestualizzare il tuo lavoro alla luce di nuove realizzazioni, incontri e scontri.

Un destino nel nome: Armida = donna che combatte. Sono una persona piuttosto concreta, ma ogni tanto mi diverto con le simbologie; se ti dicessi che il numero nove, giorno della mia nascita, tra le altre cose sembra che indichi mancanza e associato alla mancanza il desiderio, si spiegherebbero molte cose…

Marco Nember Novembre, in occasione della mostra Standing up, Red Stamp Art Gallery, Amsterdam, 2016

UN TÈ CON ARMIDA, 2014

intervista di Anna Lisa Ghirardi per Espoarte #86

Nella pianura padana – tra Brescia e Cremona – in un piccolo paese, Verolanuova, incontro, per la prima volta all’interno del suo studio, l’artista Armida Gandini. Il borgo fu fondato dagli Ungari e conobbe il suo splendore in epoca rinascimentale, come ben si vede dal maestoso palazzo comunale cinquecentesco, un tempo di proprietà della famiglia Gambara, e dalla grande piazza di impostazione tipicamente veneta. Vanto verolese, come mi ricorda Armida, sono invero i grandi teleri, Sacrificio di Melchisedech e La caduta della manna, che Giambattista Tiepolo dipinse con magistrale virtuosismo attorno al 1740-42 per la cappella del Sacramento della Basilica di San Lorenzo. Poco lontano dalla chiesa parrocchiale, inglobata nel nucleo urbano, è situata la cascina, restaurata in veste moderna dall’architetto Mario Galperti – marito dell’artista – che custodisce lo studio di Armida.

Con il garbo che la contraddistingue, Armida mi apre la porta al numero 3. Indossa un abito fiorato di un verde muschio che si riflette nel colore dei suoi occhi. Un abito vintage di stile inglese. Mi sorride, mi abbraccia e mi accoglie nella sua dimora. Davanti all’ingresso si apre una piccola corte e mi addentro in un luogo dove gli oggetti attraversano letteratura, cinema, arte, percorrendo viaggi che sconfinano le mure domestiche. Il tè delle cinque, che come quello di Alice non verrà mai versato, è accompagnato da un’appassionata chiacchierata che ci porta sino a sera.

D: Il tuo studio è custodito nel cuore della tua casa. Come è nato il progetto di ristrutturazione di questa cascina?
R: Il bisogno iniziale di avere uno studio accanto alla casa ha influenzato il progetto generale, dettandone lo schema. Perché se è vero che lo studio è il cuore della casa da un lato, dall’altro ha un suo spazio indipendente. La struttura della cascina è stata mantenuta integra nei volumi, non nelle finiture volutamente non tradizionali. Lo studio in particolare sfrutta la doppia altezza dell’ex fienile, ora schermato da una grande vetrata che guarda sul cortile interno. Insieme, io e Mario, abbiamo deciso per un intervento contemporaneo (pavimenti di cemento, scale e accessori in ferro), realizzato in collaborazione con artigiani locali che poi sono gli stessi con cui costruisco le mie opere e che mi forniscono i materiali per le installazioni. 

D: Come utilizzi gli spazi del tuo studio per creare la tua opera?
R: Lavorando con linguaggi diversi, che spaziano dal disegno alla video installazione, entro ogni volta in studio con un atteggiamento mirato, ci sono periodi per esempio nei quali passo intere giornate a disegnare oppure intere giornate al computer.

D: La grande vetrata del tuo studio mi ricorda in senso traslato il titolo dell’opera Mi guardo fuori che ha vinto il Visible White di Celeste Network e Fondazione Studio Marangoni. Cosa vuol dire per te guardare fuori?
R: Il rapporto con il mondo è un rapporto con l’altro, qualcuno non solo estraneo al nostro essere, ma addirittura lontano nel tempo e nello spazio. Eppure in relazione con noi. Mi guardo fuori è un lavoro sull’autoritratto per interposta persona. Le protagoniste della serie sono donne dell’arte o della cultura, donne diversamente feconde che con la loro vita hanno lasciato un segno. La vetrata dello studio è un confine trasparente che apre lo sguardo alle persone che ci vengono incontro e che noi scegliamo, per affinità o empatia, perché hanno qualcosa da raccontarci e un po’ ci somigliano… non solo persone reali, ma anche personaggi di carta o di celluloide che noi percepiamo più veri di quelli incontrati per strada, anche quando finisce la magia e ci chiediamo cosa sarà della loro vita. 

D: Possiedi una collezione di teiere e nel tuo studio vedo ben due opere con questo oggetto, che significato ha esso per te?
R: La mia collezione di teiere inizia quando nella vetrina di un negozio di Lincoln specializzato nel tè vedo una teiera speciale, la stessa che la protagonista del film Le notti della luna piena di Eric Rohmer – mio regista prediletto e uno dei miei mentori – regala al suo fidanzato architetto. Da quella visione della memoria alla mia piccola collezione di teiere di design a quelle più affettive o “normali”, che senza una precisa riconoscibilità hanno attirato la mia attenzione. Mi piace anche la simbologia legata alla teiera interpretata in alcuni contesti come utero che accoglie. 
Le piccole installazioni in ceramica e vetro fanno parte di un percorso legato all’oggetto domestico che racconta microstorie: siamo tutti delle formichine al bordo dell’universo che inseguiamo l’ennesimo tiro di dadi, oppure eroi d’altri tempi che vengono da lontano come il Narciso della teiera, la piccola mosca che si specchia sulla superficie del tè materializzato in vetro; o il servizio, L’ora del tè, composto da oggetti bucati, senza fondo … la proiezione di uno stato d’animo di impossibilità, anche solo di un gesto così quotidiano come quello di bere un tè. 

D: A proposito di incontri il tuo luogo di lavoro pullula di presenze. Cosa mi racconti delle donne che vedo qui vicino a me nell’opera Siamo i nostri incontri o degli uomini dell’opera In buone mani alla quale stai lavorando?
R: La prima opera nasce in modo curioso… mi è stato conferito un premio da parte di una società di canottieri di Torino che, coincidenza, si chiama Armida. Nella stessa occasione mi hanno regalato una felpa con scritto a caratteri cubitali il mio nome e l’anno di fondazione del club, 1869, che è un anagramma numerico della mia data di nascita. Ho pensato subito che non arrivava per caso e che potesse nascerne un lavoro: avrei chiesto alle donne della mia vita di indossarla e di fotografarle nel loro ambiente, di entrare nella pelle di Armida. Nel progetto In buone mani accolgo nelle mie piccole mani il viso di quelle figure maschile che hanno contribuito alla mia formazione. Le mani del titolo non sono tanto le mie che accarezzano, ma le loro alle quali mi affido. 

D: A quali opere stai lavorando attualmente?
R: Molti dei miei progetti sono works in progress, quindi evolvendosi nel tempo si sviluppano parallelamente. In buone mani, iniziato con la fotografia di mio papà, sta prendendo una dimensione più ampia nel coinvolgimento di figure che non rientrano nella mia vita quotidiana. Sono reduce da una mostra in Portogallo, Tempo Stretto, una collettiva con Cesare Biratoni e Luca Scarabelli costruita attorno all’idea di contingenza e alle suggestioni del luogo, che mi ha portato a lavorare ad una serie di immagini che mescolano disegno e collage, superficie e oggetto.

Intervista di Anna Lisa Ghirardi per Espoarte trimestre N.4 2014

Profili: Armida Gandini, 2008

Intervista di Laura Fanti per la rivista Espoarte #54

D: Sei di ritorno da Città Sant’Angelo, dove hai svolto un laboratorio con bambini, Il gioco della torre, ci vuoi raccontare come è andata?
R: L’attività didattica rientrava nella manifestazione Godart, e quando Enzo De Leonibus che dirige il Museo Laboratorio, mi ha proposto di lavorare nel reparto psichiatrico dell’ospedale, ho accolto con piacere l’occasione di vivere un’esperienza in un ambito per me nuovo. L’obiettivo consisteva nel creare un dialogo tra i bambini e i pazienti, facendoli incontrare sul piano della relazione e del contatto. La torre del titolo è una metafora della malattia: all’interno ci sono degli uomini e delle donne che vibrano, soffrono, si bloccano dentro le loro emozioni/ossessioni. I bambini hanno costruito metri e metri di trecce rosse, divenute prolungamenti dei loro corpi, nel tentativo di uscire da sé stessi, superare i confini della torre e smuovere, provocare una risposta. Sostanzialmente si è trattato di una riflessione sul tema dell’amore come garanzia di cura, che io stavo sviluppando nel lavoro Touch me. In questo video e nei disegni che ne derivano, la bimba tocca per essere toccata, per far sentire la sua presenza e l’urgenza della corrispondenza amorosa.

D: Trovo molto bella la tua riflessione sull’amore come garanzia di cura, soprattutto perché non parli di possibilità ma di garanzia, di certezza, quindi prendi come punto fermo qualcosa di apparentemente sradicato e immateriale, non appartenente e non riconducibile a canoni come l’amore. Da qui il tuo lavoro non procede in modo interrogativo ma “costruttivo”, e anche stavolta la tua posizione mi sembra inconsueta rispetto al panorama abituale, mi sbaglio? 
R: Il confronto con i pazienti del reparto psichiatrico mi ha confermato come la ferita che deriva dall’abbandono e dalla paura di non essere amati sia devastante perchè genera dissociazione. Questa è una strategia che ognuno di noi adotta, in modo più o meno marcato, per difendersi dal dolore del non amore, la chiusura all’amore stesso. Per questo credo sia importante sforzarsi di imparare un atteggiamento costruttivo, in generale, nella vita come nell’arte. L’arte in fondo contiene in sé il principio del fare e del costruire, in forme molto diverse, d’accordo, ma con l’obiettivo di muovere delle energie; che serva realmente a qualcosa? beh, questo non lo so… spero sempre che si inneschi un meccanismo di comunicazione. 

D: D’altra parte l’infanzia è uno sfondo costante del tuo lavoro, e molte volte ti vengono rivolte domande su questo punto… stavolta vorrei chiederti come ricordi la tua.
R: Come una fase di grande vitalità ed energia: ricordo me stessa come una bambina curiosa del mondo, delle cose, ma nello stesso tempo attenta al rapporto con le persone, riflessiva… In fondo il filo rosso del mio lavoro è la continua ricerca della relazione con l’altro, attraverso uno sguardo interiore che si proietta verso l’esterno, ampliandone gli orizzonti, le prospettive.

D: Noto che nel tuo lavoro l’infanzia assume caratteri molto diversi da quelli ricorrenti nell’opera d’arte contemporanea: non si evince morbosità, inquietudine, senso di non-finito, di embrionale, ma una sorta di capovolgimento, come se i mondi paralleli dei bambini sono in realtà la redenzione del nostro tempo, una specie di catarsi…
R: La mia è stata fondamentalmente un’infanzia normale, simile a quella di tanti altri bambini cresciuti in una famiglia non abbiente di provincia degli anni ’70. Non che quelli non fossero anni di grandi rivoluzioni, sia in ambito sociale che politico (ricordo perfettamente quando in quinta elementare la maestra annunciò alla classe il sequestro di Aldo Moro e come in seguito mi interessai al caso seguendo giorno dopo giorno le cronache televisive), ma tutto era vissuto attraverso un filtro che attutiva l’esperienza concreta. In realtà lavorare sull’infanzia non significa per me indagare un mondo parallelo a quello degli adulti, mostrandolo per contrapposizione. Non è un atteggiamento nostalgico di chiusura malinconica nel passato, ma un modo per andare alla ricerca di quelle radici che sono alla base della costruzione dell’identità, in una fase fondamentale in cui tutto è contemporaneamente già scritto e in divenire. In questo si gioca lo scarto che fa la differenza: il bambino è lo specchio dell’adulto, ma con maggiori possibilità di redenzione, per usare una tua parola… 

D: Questo non significa che la tua visione sia scevra da problemi, anzi, hai sollevato più volte questioni come l’incomunicabilità e il desiderio di contatto (come in Campane di vetro e in Touch me). Tuttavia quando l’inquietudine, il tormento, l’isolamento attraversa il tuo lavoro, avviene in modo molto delicato, anche a livello tecnico, il tuo disegno, la tua linea, il tempo e lo spazio che attraversano i tuoi lavori sono sempre apparentemente leggeri, sospesi. Ci puoi dire qualcosa in proposito?
R: Mi rendo conto che il mio lavoro sia aperto a diverse chiavi di lettura, perché io non amo rappresentare, ma riflettere su delle situazioni giocando anche sull’ambiguità dell’immagine. E’ un modo per non dare risposte assolute, di prendere delle posizioni che riconoscano il beneficio del dubbio. Credo che dal punto di vista tecnico io abbia bisogno di far riferimento ad un linguaggio che superi il contingente: la realtà può essere più intensa nel momento in cui la si evoca rispetto a quando la si urla a squarciagola. Pensa a Campane di vetro per esempio, il tema dell’incomunicabilità è implicito nell’oggetto della calotta di plexiglas che ho utilizzato, non avevo bisogno di gesti teatrali per esprimere il senso di claustrofobia e isolamento che vivono i bambini quando si creano delle barriere rispetto al mondo che li circonda. Forse Noli me tangere potrebbe apparire come un lavoro più forte, così costruito sulla progressione del nero, del pericolo che diventa sempre più incombente e angosciante; ma nello stesso tempo tutto è realizzato metaforicamente come se si trattasse di un’avventura più mentale che fisica, che presuppone un’apertura nel finale.

D: Interessante questa tua osservazione sull’assenza di teatralità nel tuo lavoro [quando parli di Campane di vetro e del messaggio implicito di claustrofobia] nel senso di assenza di riferimenti urlati che rischiano di diventare gesti ostensivi. Questo nonostante tu ti serva molto del video; cosa è che ti fa scegliere questo medium al posto di una fotografia, di un collage o di altro? Forse l’idea della progressione alla quale hai accennato? della crescita dell’attesa nello spettatore? O cos’altro?
R: Mi piace molto l’idea della dilatazione temporale dell’immagine e questo deriva certamente dalla mia ossessione per il cinema, seducente e ipnotico come nessun altro luogo di evasione. Lo scorrere del tempo alimenta la crescita dell’attesa, la sospensione, ma anche il compiersi dell’azione in una dimensione ciclica. Forse è proprio questo l’aspetto che mi interessa maggiormente del linguaggio video, la possibilità di un ritorno dell’immagine alla situazione di partenza: e questo fin dal mio primo lavoro, Cedi? non cedo, che era costruito sulla ripetizione della medesima sequenza (un film 8 amatoriale nel quale due bambini fingono di litigare giocando, ma rischiando di picchiarsi sul serio), alla quale ho scelto semplicemente di aggiungere il titolo in sovrimpressione e il rumore del vecchio proiettore, di cui mi sono servita per riversare la pellicola in formato digitale. Volevo anche aggiungere che in genere mi piace affrontare i progetti sui quali sto lavorando da diversi punti di vista, per cui l’utilizzo del video normalmente si accompagna alla realizzazione di fotografie e disegni.

D: Ultima domanda d’obbligo! Cosa hai in programma per i prossimi mesi? Pensi di lavorare più su progetti a lungo termine o su singoli eventi?
R: Sto lavorando a progetti paralleli, alcuni dei quali nascono dalla relazione con il lavoro di altri artisti e quindi si svilupperanno nel tempo; altri più individuali hanno come obiettivo una mostra personale nel prossimo autunno.

Intervista di Laura Fanti per la rivista Espoarte, Agosto/Settembre 2008

NOLI ME TANGERE, 2007

Noli me tangere, 2007, digital print

di Marco Nember

D: Perché hai scelto di far comparire la tua protagonista all’interno di un indeterminato spazio bianco?
R: Perché è uno spazio metaforico, non contestualizzato nel tempo e nello spazio; il limbo e’ una pagina bianca dove tutto può essere scritto e dove tutto può succedere, come nella vita…

D: L’iniziale fastidio della ragazza nei confronti degli agenti esterni sfocia in una vera e propria angoscia (paura?) che la porta istintivamente a proteggersi. Il suo senso d’abbandono non appare in ogni caso attenuato, anzi provoca un senso di straniamento nello spettatore dovuto al fatto che la tua protagonista pare non abbia alcuna intenzione di muoversi, solo ripararsi.
R: In un luogo privo di coordinate spaziali, la fuga risulterebbe inutile: ovunque si vada mancano i punti di riferimento grazie ai quali orientarsi e, scappando, la nostra condizione non cambierebbe perché non esiste un altrove, oltre il bianco c’è il bianco. La protagonista di questa avventura avverte che qualcosa sta per accadere ancora prima che si manifesti visivamente, non appare sorpresa, ma all’erta, si guarda attorno con uno sguardo di circospezione… come se sentisse l’ineluttabilità di ciò che può avvenire e si mettesse in gioco. Ma se il gioco diventa pericoloso e’ necessario imparare a schermarsi e ognuno di noi, di fronte alle esperienze della vita, innesca dei meccanismi di autodifesa e protezione; il cappottino del finale e’ una corazza, ma anche una seconda pelle, la traccia del vissuto che costruisce la nostra identità. 

D: La rappresentazione degli stati di passaggio nella vita umana è una costante della tua opera. In questo caso poni particolare attenzione ai sensi, soprattutto al contatto. In “Noli me tangere” il contatto è in un certo qual modo prima repellente e poi portatore di pericolo. Ma la ragazza ritorna sul “luogo del delitto”. Il contatto ha assunto il valore di una crescita morale, dell’abbattimento di un tabù (il non essere toccati ovvero la propria “intoccabilitá”)?
R: Il pensiero che niente ci tocchi è solo un’illusione: noi siamo gli incontri che facciamo, le relazioni che stabiliamo con il mondo. Ma il contatto con le cose non è sempre piacevole; dal bianco immacolato del limbo può arrivare di tutto: il fastidio, la minaccia, l’ostilità, la sofferenza, il dolore… e non ci si può sempre sottrarre. Forse per questo la ragazza ritorna sul ‘luogo del delitto’, anche perché si sente scoperta, vulnerabile, impotente… e che si scaglino contro e poi si vedrà.

D: Il riferimento ad Hitchcock nella modalità estetica con cui hai realizzato l’attacco degli uccelli alla tua protagonista è lampante. Perché hai scelto di citare e re-interpretare The Birds anche nell’uso degli effetti speciali ed applicarlo alla tua opera?
R: Il cinema è la mia grande passione, la mia via di fuga in una dimensione di intoccabilità. Hitchcock è stato l’artefice di questo innamoramento, aprendomi un mondo quando vidi da bambina Marnie, interpretato da Tippi Hedren, che poi è la stessa protagonista de Gli Uccelli. Di questo film mi piace il fatto che il pericolo venga da uccelli comuni, non da uccelli da preda, come dire che bisogna far attenzione rispetto a ciò che è quotidiano, familiare, e che gli attacchi diventino sempre più pesanti. Ma soprattutto, che il film sia chiaramente una costruzione intellettuale, una metafora. Per quanto riguarda il linguaggio mi ha proprio affascinata la sigla di apertura (Hitchcock èun grande talento anche in questo) e l’idea di poterla simulare con l’animazione èstata una bella sfida.

D: Gli elementi grafici che interagiscono nel video danno il senso della dimensione mentale del tuo racconto, appaiono sullo schermo come fossero pennellate nate per custodire un segreto. 
Hai scelto di chiudere l’opera con un’inquadratura fissa, in cui la tua protagonista appare ancora una volta in campo bianco coperta da un cappottino disegnatole addosso. Cosa sta aspettando adesso?

R: Si aspetta altre avventure, altri uccelli, ma potrebbero essere dei lupi o delle pantere. Non è importante ciò che succederà, importante è la condizione di attesa e di incontro nella quale la ragazza si trova, simile a quella precedente, ma con un po’ più d’esperienza. Mi viene in mente quando ero bambina e mi accompagnava un senso di inadeguatezza: le cose nuove mi sembravano grandi e insormontabili e mio papà cercava di consolarmi dicendo che anch’io ero diventata più grande per affrontarle… Mi piace questa idea ciclica del camminare per ritornare allo stesso punto di partenza, ogni volta con qualcosa in più.

D: In “Touch me” il contatto si trasforma invece in qualcosa di fortemente desiderato. La tua opera porta a riflettere sui motivi che portano un bisogno innato ad essere negato. Perché hai scelto di non illustrare le conseguenze di questo rifiuto, ma solo di mostrarne la crudeltà?
R: In genere il mio lavoro pone domande senza dare risposte o indicazioni. Secondo me andare all’origine delle cose significa cercare di prenderne consapevolezza: le conseguenze della mancanza d’amore si manifestano diversamente, ognuno di noi reagisce innescando meccanismi di difesa che non possono essere generalizzati e io non voglio mostrare situazioni particolari e definite, ma aperte.

D: “Noli me tangere” e “Touch me” raccontano due universi paralleli, realtà al di qua e al di là di uno specchio. Cosa li fa nascere affiancati, dov’è il loro punto d’incontro?
R: M’interessa l’altra faccia della medaglia, la possibilità di guardare la stessa cosa da prospettive diverse, perché indica apertura, confronto. La paura di essere toccati con tracce indelebili dagli eventi della vita implica anche il suo opposto, il bisogno del contatto inteso come corrispondenza amorosa. Se in Noli me tangere la ragazza si scherma per proteggersi, in Touch me la bimba tocca per essere toccata, per far sentire la sua presenza e l’urgenza di essere amata. Nulla nutre come l’amore, nulla devasta come il disamore. Il suo tentativo è quello di smuovere dall’indifferenza, perché attraverso il gesto del toccare può nascere uno scambio, una relazione.

Intervista di Marco Nember in occasione della presentazione del video Noli me tangere, 2007

Noli me tangere

by Marco Nember

Armida Gandini selected the concurrent showing of two of her videos for l’Ozio: Noli me tangere (2007) and Touch me (2007).
Both works recall a specific dimension of touching and of being touched, developing Armida’s reflections of significant aspects of personal growth during the critical phases of childhood and youth in a unique and effective way. The artist widened the universe represented in the videos by introducing plexiglas hemispheres (Noli me tangere) and drawings on paper (Touch me).  This allows for a deeper understanding of both her artistic and personal development. 

In Noli me tangere the main character appears in an indefinite white space. The initial girl’s bother from the external agents results in a real distress (fright?) that instinctively drives her to protect herself. Her feeling of neglect does not seem to weaken, on the contrary, it causes the alienation of the audience because the main character does not seem willing to move, but only to protect herself.


In a place without spatial coordinates, the flight would be useless: wherever you go you would lack the reference point needed to get oriented.  By running away, our status would not change because the elsewhere does not exist; after white there is white. The main character of this story feels that something is just about to happen prior to it occurring. She does not seem surprised, but wary. She looks around with circumspect …..as if she could feel the inevitability of what is about to happen and she comes into play. But if the game becomes dangerous it is necessary to learn how to protect ourselves. Each of us, in the face of life’s experiences, develops defence and protective mechanisms; at the end the coat represents a shell, but also a second skin, the mark of the past that develops our identity.

The representation of the shift in the stages of life is recurrent in all your work. You put particular attention on the senses, and specifically on touch. In “Noli me tangere” the touch is somehow repulsive at first and then the carrier of danger. However the girl goes back to the “scene of the crime”. Does touch assume the merit of moral growth, the defeat of a taboo (being untouched or rather our own “untouchability”)?
The thought that nothing could touch us is only an illusion: we are the people we meet, the relations that we establish with the world.
But contact is not always pleasant; anything could come from the spotless white of limbo: the inconvenience, the threat, the hostility, the suffering, the pain….and you cannot always avoid it.
It is probably because of these that the girl goes back to the “scene of the crime”, also because she feels revealed, vulnerable, powerless…..let them reveal themselves and then we will see.

There is a clear reference to Hitchcock in the way you carried out the birds’ assault on the main character. Why did you decide to mention and revisit “The Birds”, including in the use of special effects and to apply it in your work?
Film is my biggest passion.  It is my way of escaping to a dimension of “untouchability”. Hitchcock is the author of my enthrallment. He introduced me to a new world when I was a child through Marnie, acted by Tipi Hedren, who in the end is the same main character of “The birds”. In this movie I particularly like the fact that danger comes from ordinary birds, not from birds of prey, meaning that we need to be aware of  everyday life events, and that the attacks become more and more serious. But above all, I like that the movie is clearly an intellectual work, a metaphor.

The graphic elements which interact in the video transfer the mental dimension of your story, they seem like brush-strokes born to guard a secret. You decided to end your work with a still frame, in which your main character appears again with a white background and covered by a coat drawn over her. What is she waiting for now?
She is waiting for other adventures, other birds, but they could be wolves or panthers. What will happen is irrelevant, but what is relevant is the state of waiting and encounter that the girl finds her herself in, similar to the previous state, but with more experience.   I recall when I was a child and I experienced feelings of inadequacy: new things seemed big and insurmountable and my dad tried to cheer me up by saying that even I had grown to face them…..I like this cyclical idea of walking to get back to the starting point, every time with something more.

In “Touch me” the contact is transformed in something that is strongly longed for. Your work leads one to reflect on the reasons behind the denial of an innate need. Why did you decide to not show the consequences of this denial, and to only show its cruelty?
In general, my work asks questions without giving answers or suggestions. For me going to the roots of things means trying to become aware of it: the consequences of the lack of love reveal themselves differently. Each of us reacts by trigging defence mechanisms that cannot be generalized and I do not want to depict specific and defined situations, but open ones.

“Noli me Tangere” and “Touch me” talk about two parallel universes, situations on both sides of the mirror.
What allows them to be born side by side? Where is their meeting point?

I am interested in the other side of the coin, the opportunity to look at the same thing from different perspectives; because it expresses broadmindedness, confrontation. The fear of being affected by inerasable marks of life’s events also implies its opposite, the need of contact interpreted as mutual love.  If in Noli me tangere the girl screens herself for protection, in Touch me the child touches in order to be touched, in order to show her presence and her need to be loved. Nothing nourishes like love, nothing is as devastating as to be unloved. Her intent is to shift from the indifference, because an interaction and a relation could be born through the touching gesture. 

Rane in pancia, 2006

Rane in pancia (hop), 2006, lambda print and ink drawing on plexiglass, Ø cm 25

di Marco Nember

D: Cosa racconta Rane in pancia e come si è sviluppato il progetto nello spazio della galleria?
R: Da qualche tempo sono interessata al concetto di vuoto inteso come momento di transizione e non come assoluto: fare vuoto dentro e fuori di noi é indispensabile perché ci sia rigenerazione, scoperta dopo la perdita. Rane in pancia deriva da questo approccio al concetto di vuoto, inteso come necessità di fare piazza pulita e di ricominciare in una condizione di leggerezza. Lasciar fluire… svincolarsi dai condizionamenti, emanciparsi dalla malattia, sganciarsi dagli schemi, per ricominciare, agire, per esserci. 
Il progetto si è sviluppato pensando a un’esplosione di energia che avrebbe invaso lo spazio della galleria con elementi aggettanti e dinamici, che raccontassero di un’esperienza in divenire.

D: L’uso di simboli (in questo caso bolle, rane, girini ma anche piume, fiori, soffioni) contribuisce in modo determinante a focalizzare il senso del tuo lavoro. Puoi raccontarmi come è nata l’ispirazione e ha preso questa forma?
R: Le bolle avvolgono i girini in procinto di diventare adulti: così le semisfere trasparenti sono forme ricorrenti nei miei ultimi lavori e associano per stratificazione immagini fotografiche ad interventi di disegno che, in questo caso, rimandano ad una condizione di passaggio (la rete o l’elastico intrecciato) o ad un’idea di sospensione, di attesa, accompagnati dalla paura della scoperta e l’incertezza che il cambiamento può portare. La sovrapposizione di vari piani che unisce immagini realistiche a immagini simboliche, mi permette di evocare situazioni più che descriverle, perché ciò che mi interessa non sono tanto le azioni fisiche dei miei personaggi, ma le loro reazioni interiori.

D: L’evoluzione e la mutazione sono elementi che ricorrono nei tuoi progetti: come nasce il tuo interesse per i “momenti in cui le cose cambiano” ed in particolare per l’adolescenza?
R: M’interessano le situazioni aperte, in movimento, e quelle dell’infanzia e dell’adolescenza sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, dove tutto è ancora possibile. Mi piace pensare che le situazioni della vita non siano statiche, ma fluttuanti. C’è un testo del Vecchio Testamento che vorrei citare a proposito e che mi ha accompagnato in questo lavoro, Qohelet e l’interpretazione che Cacciari ha esposto in una conferenza a Brescia: l’oscillazione fra gli opposti, l’idea di un movimento altalenante fra due poli. Nell’Ecclesiaste questa idea ritorna nella concezione del tempo ed è alla base dell’esistenza di ognuno di noi: la fluttuazione fra gli estremi genera instabilità, mancanza di equilibrio, incapacità di prevedere e vanità del progettare. La minaccia, l’incognita, ci obbligano a compiere passi da acrobati, come se fossimo sospesi e sotto di noi ci fosse il vuoto…

D: Racconti la difficoltà di vivere e di mantenere un equilibrio, in questo caso l’instabilità dei giovani. Cosa ti porta a cercare questo tipo di emotività e a trasferirla nelle tue opere?
R: Sono convinta che la condizione del funambolismo sia molto diffusa nella contemporaneità e credo che la fase dell’adolescenza, considerandone l’estensione temporale, possa esprimere efficacemente questa situazione esistenziale. Non a caso, alla base del progetto che espongo presso l’Università Cattolica – nell’ambito della Biennale di Fotografia in una mostra collettiva con Paola Di Bello e Alessandra Spranzi – protagonisti di questa avventura sono degli adolescenti un po’ cresciuti che si muovono claudicanti in uno spazio privo di riferimenti cardinali (gli studenti del corso di organizzazione di eventi artistici dello S.T.A.R.S., condotto da Piero Cavellini). Dal vuoto, il bianco della pagina, si affacciano su mondi più mentali che reali, e si confrontano con le loro paure, i dubbi, le incertezze di chi ha ancora tutto da perdere, ma anche da ritrovare e vivere.
Formalmente il lavoro si realizza in semisfere di plexiglas, che riproducono all’interno immagini fotografiche di giovani acrobati e, all’esterno sulla calotta, disegnati con la china, elementi che comunicano rischi e pericoli provenienti dal mondo della natura o dal quotidiano.
All’interno di questo percorso ho previsto una videoproiezione: il video è costruito attraverso due immagini stratificate che affiancano anche linguisticamente le due concezioni del tempo: una statica che esprime ripetitività e la seconda che comunica l’idea della successione degli eventi, di un tempo istante che ritorna, ma che è sempre diverso dal precedente e dal successivo. Le sequenze video mostrano contemporaneamente una ragazza che soffia le bolle e bolle che si muovono sul fondo liberamente, a cui sono state sovrimpresse alcune frasi dell’Ecclesiaste riguardanti il tempo e la vanità.

D: Come scegli le protagoniste dei tuoi lavori? quanto il soggetto ritratto si fonde con l’opera o al contrario quanto ne è solo interprete?
R: Si tratta di persone con le quali ho stabilito una relazione: nel caso di Rane in pancia la protagonista è una mia allieva dell’Accademia (insegno alla Laba di Brescia), mentre per quanto riguarda l’installazione della Cattolica, ripeto, ho fotografato gli studenti del laboratorio a cui sono stata invitata a collaborare, in quanto protagonisti abituali di quello spazio.

D: Come sono nati i progetti realizzati per la biennale di fotografia?
R: In occasione della mostra presso la galleria Nuovi Strumenti presento una video installazione intitolata Cedi? Non cedo, del 2003, che sottolinea lo scarto che spesso intercorre tra realtà e finzione. Il video è realizzato recuperando un vecchio film 8 degli anni ’70, girato con una macchina da presa amatoriale da un’operatore dilettante, quale può essere un genitore che riprende i suoi figli bambini durante un pranzo di famiglia. Il film mostra due ragazzini che giocano in un prato a picchiarsi e agiscono in funzione della macchina da presa che li sta riprendendo, a discapito del bambino più piccolo che fra colpi e spintoni rischia di avere la peggio. Ricordo di aver pensato come fosse frequente nella quotidianità agire per degli spettatori e, d’altra parte, assistere passivamente per non interrompere un’azione. Frequente e pericoloso, perché l’immagine scorre come se tutto fosse finzione, la realtà come un fatto di cronaca. Per aumentare ulteriormente la distanza tra visione e spettatore, il video verrà proiettato su una grata/barriera che caratterizza l’architettura dello spazio espositivo.

Intervista di Marco Nember pubblicata sul quotidiano Il Brescia in occasione della mostra Rane in pancia presso Fabio Paris Art Gallery, Brescia, 2006

Come bolle di sapone, 2005

di Annalisa Portesi

D: Che significato hai attribuito alle semi-sfere/bolle?
R: L’idea di allestire le opere all’interno di semisfere di plexiglas mi ha riportata indietro nel tempo, quando bambina ammiravo le immagini un po’ inquietanti delle bambole di cera schermate da campane di vetro e collocate sui cassettoni della stanza da letto dei nonni e delle anziane zie (scopro ora che si trattava di una rappresentazione di Maria Bambina legata ad una tradizione di devozione dell’effige di Maria). Oggetti fragili protetti da capsule ancor più delicate che creavano un confine tra lo spazio reale occupato dallo spettatore e lo spazio sospeso, fuori dal tempo, come cristallizzato, del vano asettico definito dalla calotta di vetro. Il mio desiderio è stato quello di ricreare queste atmosfere ovattate attraverso una serie di fotografie di una bambina bloccata in una dimensione al di fuori di un tempo e di uno spazio definito, la cui distanza dal mondo che la circonda è sottolineata da questa barriera che, seppur trasparente, crea una separazione tra il dentro e il fuori, generando silenzio-non comunicazione. Non è casuale l’idea di lavorare su questa tematica, anche per ricollegarmi all’obiettivo dell’evento promosso dall’associazione (e nemmeno che la bambina protagonista si chiami Benedetta).

D: Metaforicamente le sfere possono essere interpretate come delle stratificazioni, una sorta di seconda pelle che la vita sin dalle prime esperienze ci cuce addosso deviando o semplicemente attutendo il contatto con l’esterno?
R: Più che come seconda pelle direi come una corazza; mi piace pensare che non sia definitiva e inconsapevole, non un prolungamento del corpo, ma un accessorio.

D: Sulle calotte in plexiglass tu hai disegnato degli animali o degli insetti…
R: Spesso gli insetti si aggirano attorno a superfici trasparenti ingannati dalla loro consistenza, e come gli insetti gli uccelli. Ti racconto un aneddoto personale: da quest’anno ho un nuovo studio con una grande vetrata che separa uno spazio interno da uno porticato. Prima della ristrutturazione i due spazi erano comunicanti e rifugio di volatili di ogni genere, che gradatamente stanno imparando che questo luogo ha subito una modificazione: un passaggio è stato ostruito. Mi capita infatti di entrare in studio e vedere sul vetro l’impronta della sagoma di un uccello in volo tradito dalla sua trasparenza; è stato come bloccare una comunicazione. 
Nel caso delle bolle inutilmente gli insetti ruotano attorno ad esse, non riuscendo a penetrare l’involucro dovranno limitarsi ad osservare dall’esterno; per la bambina, però, questo è anche un modo di proteggersi da presenze fastidiose, talvolta viscide, prenderne distanza.

D: Il picchio, le farfalle, la lucertola… la scelta di determinati animali rispetto ad altri cela un significato simbolico?
R: In generale si tratta di animali che girano intorno alle cose con una certa insistenza finché una presenza, umana per esempio, con il suo arrivo li spaventa e li fa scemare. Metaforicamente rappresentano, per quanto piccoli nelle dimensioni, l’ingombro dal quale ci vorremmo liberare. Sono presenze mentali, sospese sulle bolle come se fossero impronte lasciate durante un passaggio; l’intento è quello di evocare una situazione, non di descriverla. In un primo tempo avevo pensato di incollare sulle calotte animali veri, ma proprio per questo poi ho preferito disegnarli.
Nel caso del lavoro Dove sei? il disegno del picchio, per contrasto, rimanda all’impassibilità della bambina indifferente alle sollecitazioni martellanti che provengono dall’esterno.

D: Secondo te, cosa potrebbe rendere il contatto comunicativo adulto-bambino più aperto e profondo, tanto da permettere a quest’ultimo una totale e libera espressione di sé?
R: Credo che non esistano formule precise, così come tra adulti: penso al rispetto, la comprensione…

Intervista di Annalisa Portesi in occasione della mostra Come bolle di sapone… presso la galleria Starter, Milano 2005

Intervista per la rivista AB 74, 2003

L’idiota dimenticato, 2001, installation view, Villa Glisenti, Villa Carcina (Bs)

di Melania Gazzotti

D: Da cosa è partita la tua ricerca artistica?
R: Credo che fin dall’inizio abbia prevalso la riflessione sull’identità nel confronto e dialogo con l’esterno. Un tentativo di relazione, scambio; tentativo di messa a fuoco e definizione. Un modo per confrontarsi con il mondo, ma anche con se stessi e il proprio vissuto.
Se ti riferisci all’ultimo lavoro è un’evoluzione del Bosco delle fiabe e ciò che mi interessava mostrare in quel percorso era un campionario di umanità, di persone comuni che alla fine escono dall’anonimato anche solo perché qualcuno ha posato su di essi il suo sguardo. Personaggi della vita, tratti da album di famiglia miei, di amici e parenti, emergevano da un fondo comune e, identificandosi con personaggi della fiaba, diventavano rappresentativi di un determinato stato dell’uomo. Mi interessano gli uomini, le persone, le loro reazioni interiori, i loro gesti.
Ora sto lavorando sulla negazione, una forma di autodifesa, come se attraverso la negazione si affermasse la propria identità e difendere il proprio spazio non significhi per forza invadere lo spazio degli altri.

D: Ci sono stati degli incontri anche solo “virtuali” che hanno influenzato le tue scelte artistiche?
R: Diciamo che m’innamoro facilmente. I miei incontri sono stati molto concreti, nel senso che mi lascio coinvolgere con molta partecipazione.
E spaziano dal cinema, alla letteratura, all’architettura, che in modo diverso sono presenti nei miei lavori. Potrei fare degli esempi citando il cinema francese e in particolare Eric Rohmer che mi ha trasmesso il gusto per il quotidiano e per la serialità; Dostoevskij, al quale ho dedicato un omaggio con L’idiota dimenticato (un’installazione per Villa Glisenti all’interno della mostra Lampi Grevi) una riflessione sul rapporto forme della natura – forme della cultura e sul rischio della perdita della bellezza nel dimenticare entrambe.
L’architettura contemporanea mi ha ispirato invece una serie di lavori sul museo, come luogo di appartenenza e nello stesso tempo di disorientamento, di perdita e di ritrovamento attraverso il filtro dell’arte.

D: Da dove provengono gli elementi che compongono le tue opere dal tuo universo personale o dall’esterno?
R: Io preferisco partire dalla mia esperienza, usando un filtro personale e intimo per parlare di cose che hanno un respiro più vasto. 
La relazione con l’esterno è inevitabile, ma lo sguardo sulla cronaca non è sufficiente, così come non è sufficiente il fatto contingente. Mi interessa l’idea dell’arte come testimone di un’epoca, ma nello stesso tempo credo che non ci si debba sforzare di essere i cronisti della contemporaneità, perché lo si è per principio. Certo il mio sguardo sul mondo è limitato a ciò che conosco, ma forse è un modo per costruire in modo più autentico le mie visioni.

D: Che significato hanno i bambini e l’infanzia nei tuoi lavori?
R: Una riflessione sull’identità ci porta inevitabilmente a prendere in considerazione il nostro passato; il mio percorso a ritroso non è nostalgia per l’infanzia, ma viaggio tra le immagini della memoria, che gradatamente riaffiorano in superficie per cercare una definizione nel presente. Organizzarle attraverso un linguaggio significa tentare di dare forma ad una successione di pagine stratificate nella memoria, ed è per questo che utilizzo nei miei lavori più livelli: un livello più profondo, rappresentato nel lavoro da un’immagine in secondo piano che funge da scenografia alle azioni dell’esistenza, uno strato successivo che narra l’episodio del vissuto personale, un terzo livello costituito da un breve frammento di testo, una sorta di titolo che trasferisce l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale. 
Inoltre m’interessano le situazioni aperte, in movimento, e quelle dell’infanzia e dell’adolescenza sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, dove tutto è ancora possibile. I miei personaggi non sono passivi, compiono delle azioni a livello psicologico, maturano delle scelte oppure prendono coscienza della loro situazione.

D: Ho sempre trovato i tuoi lavori estremamente poetici e vicini a una sensibilità delicata e femminile, ma forse non sono cosi ingenui come sembrano, qual è il messaggio ultimo che vuoi trasmettere?
R: Da una parte mi oppongo alla separazione arte al maschile/arte al femminile cercando il confronto con l’artista in generale, dall’altra mi rendo conto che, intensificandosi la presenza delle donne sulla scena artistica, si sia duplicato il punto di vista; ma non è detto che la leggerezza, la sospensione, il tratto volutamente infantile siano per forza prerogative di una ricerca al femminile. 
Nonostante l’essenzialità delle forme, o forse per questo, mi rendo conto che il risultato non sia sempre immediato; volutamente i miei lavori non sono descrittivi e il testo scritto che li accompagna non ha il significato di chiarire il senso dell’immagine. Mi è difficile sintetizzare in un’espressione l’obiettivo del mio lavoro, cerco di evocare delle situazioni che ruotano attorno all’uomo, spero che possano scattare negli spettatori meccanismi di identificazione.

Intervista di Melania Gazzotti per la rivista AB 74, primavera 2003

030 arte da brescia, 2003

Non gioco più, 2003, iron box with digital print on glass and drawing

di Michela Alfiero

Formalmente il tuo lavoro si sviluppa in diversi momenti e livelli interni, costruendo una sovrapposizione tra il fondo, il disegno e l’immagine in un’unica visione.

Le mie scatole sono come dei piccoli ambienti all’interno dei quali si fondono più livelli; come se si trattasse  di stratificazioni della memoria, di momenti che rivelano un’esperienza, un dato vissuto. M’interessa quella quotidianità mai ordinaria né spontanea, c’è qualcosa di relativo alla mia storia che allo stesso tempo diventa collettiva. Ogni volta è come se mostrassi l’arrivo ad un traguardo, una presa di coscienza.

Cosa intendi? Forse… mostrare una situazione, un momento della vita?

E’ un portare alla superficie un’immagine. Un’immagine che avanza e diventa sempre più definita, che passa dal bianco e nero al colore. E questo per un’esigenza di fare chiarezza sulle cose, di arrivare ad una definizione, o per lo meno tentarla.

La stratificazione della memoria, nasconde forse un’idea di sospensione del tempo?

Se intendi per sospensione del tempo la necessità  di andare oltre il contingente, pur partendo dal quotidiano, allora ti posso rispondere si.

Chi sono i personaggi che popolano i tuoi lavori?

Scelgo il protagonista e costruisco una situazione, un ambiente. Il meccanismo scatta nel momento in cui vedo una fotografia che mi interessa, andando a cercarla negli album di famiglia. E’ sempre un discorso  sulla memoria, sul ritornare, attraverso le immagini, all’infanzia per scoprire delle cose e ricostruire un’identità.  Un momento di riflessione del protagonista, proprio mentre sta vivendo una determinata esperienza.

Che cosa è per te il mondo dell’infanzia? Penso a molti tuoi lavori legati a questo periodo: Nella luce del sogno, Alice nel giardino dello specchio, Alice sottosopra

Negli ultimi lavori mi sono occupata di questo aspetto, ma non è importante quanto la situazione che si crea e che si svolge. Riflettere sull’identità significa inevitabilmente prendere in considerazione il nostro passato e cercare una connessione con il presente. Per questo ritorna il mondo dell’infanzia, non per nostalgia, ma come immagine della memoria che gradatamente riaffiora in superficie. Inoltre, quelle dell’infanzia e dell’adolescenza, sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, aperte, dove tutto può essere ancora possibile.

E le fiabe? Alice, Pinocchio….

Spesso ho paragonato l’infanzia a un evento di una fiaba; ma semplicemente per affrontare uno stato, una situazione emotiva.  Il ricorso alla fiaba era uno strumento per trasferire l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale, mediante la presenza di un terzo livello linguistico dato dal breve frammento di testo, un modo per poterci riconoscere, per far scattare il meccanismo dell’identificazione. Per esempio la mia scelta di utilizzare Alice e il paese delle meraviglie rispecchia un’idea di disorientamento anche legato al  museo e al mondo dell’arte. Entrare in un mondo, varcare la soglia e perdersi, sia dal punto di vista fisico che psicologico: lo spazio che si moltiplicava, per successione di prospettive o per mancanza di un centro, doveva far scattare un senso di spaesamento, di inadeguatezza.

Parlami del Bosco, è un ambiente che continua a tornare nel tuo lavoro.

Legato alla fiaba il bosco è il luogo della scoperta, della perdita, dell’esperienza. Nel caso dei lavori  Il  bosco delle fiabe il contesto era sempre uguale, un luogo comune, stesso fondo di tanti personaggi. Un’immagine fotografica in bianco e nero che fungeva da contesto scenico all’azione dei protagonisti, specificando che si trattava più di un movimento mentale che fisico.

Sono dei ritratti? O, sono dei racconti di uno stato emotivo?

Inizialmente ciò che mi interessava mostrare proprio nel Bosco delle fiabe era un campionario di umanità, persone comuni, tratte da album di famiglia, che escono dall’anonimato per diventare dei personaggi rappresentativi di un determinato stato dell’uomo. Partono come ritratti e diventano espressione di una situazione emotiva.

Nei tuoi ultimi lavori c’è un ritorno al disegno, a cosa stai lavorando?

In questo periodo sto lavorando intorno al  tema della diffidenza, con dei personaggi che si negano ad una possibilità di rapporto o che difendono il loro spazio. Una negazione intesa nello stesso tempo come protezione della propria identità e rifiuto in senso più allargato, una negazione che vorrebbe essere in realtà un’affermazione più determinata di sé rispetto a tutto ciò che ci circonda. Mi piace pensare che una volta tanto la piccola Cappuccetto rosso sappia dire di no al lupo.

Intervista di Michela Alfiero in occasione della mostra “030 arte da Brescia”, 2003