030 arte da brescia, 2003

Non gioco più, 2003, iron box with digital print on glass and drawing

di Michela Alfiero

Formalmente il tuo lavoro si sviluppa in diversi momenti e livelli interni, costruendo una sovrapposizione tra il fondo, il disegno e l’immagine in un’unica visione.

Le mie scatole sono come dei piccoli ambienti all’interno dei quali si fondono più livelli; come se si trattasse  di stratificazioni della memoria, di momenti che rivelano un’esperienza, un dato vissuto. M’interessa quella quotidianità mai ordinaria né spontanea, c’è qualcosa di relativo alla mia storia che allo stesso tempo diventa collettiva. Ogni volta è come se mostrassi l’arrivo ad un traguardo, una presa di coscienza.

Cosa intendi? Forse… mostrare una situazione, un momento della vita?

E’ un portare alla superficie un’immagine. Un’immagine che avanza e diventa sempre più definita, che passa dal bianco e nero al colore. E questo per un’esigenza di fare chiarezza sulle cose, di arrivare ad una definizione, o per lo meno tentarla.

La stratificazione della memoria, nasconde forse un’idea di sospensione del tempo?

Se intendi per sospensione del tempo la necessità  di andare oltre il contingente, pur partendo dal quotidiano, allora ti posso rispondere si.

Chi sono i personaggi che popolano i tuoi lavori?

Scelgo il protagonista e costruisco una situazione, un ambiente. Il meccanismo scatta nel momento in cui vedo una fotografia che mi interessa, andando a cercarla negli album di famiglia. E’ sempre un discorso  sulla memoria, sul ritornare, attraverso le immagini, all’infanzia per scoprire delle cose e ricostruire un’identità.  Un momento di riflessione del protagonista, proprio mentre sta vivendo una determinata esperienza.

Che cosa è per te il mondo dell’infanzia? Penso a molti tuoi lavori legati a questo periodo: Nella luce del sogno, Alice nel giardino dello specchio, Alice sottosopra

Negli ultimi lavori mi sono occupata di questo aspetto, ma non è importante quanto la situazione che si crea e che si svolge. Riflettere sull’identità significa inevitabilmente prendere in considerazione il nostro passato e cercare una connessione con il presente. Per questo ritorna il mondo dell’infanzia, non per nostalgia, ma come immagine della memoria che gradatamente riaffiora in superficie. Inoltre, quelle dell’infanzia e dell’adolescenza, sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, aperte, dove tutto può essere ancora possibile.

E le fiabe? Alice, Pinocchio….

Spesso ho paragonato l’infanzia a un evento di una fiaba; ma semplicemente per affrontare uno stato, una situazione emotiva.  Il ricorso alla fiaba era uno strumento per trasferire l’esperienza soggettiva in una dimensione più generale, mediante la presenza di un terzo livello linguistico dato dal breve frammento di testo, un modo per poterci riconoscere, per far scattare il meccanismo dell’identificazione. Per esempio la mia scelta di utilizzare Alice e il paese delle meraviglie rispecchia un’idea di disorientamento anche legato al  museo e al mondo dell’arte. Entrare in un mondo, varcare la soglia e perdersi, sia dal punto di vista fisico che psicologico: lo spazio che si moltiplicava, per successione di prospettive o per mancanza di un centro, doveva far scattare un senso di spaesamento, di inadeguatezza.

Parlami del Bosco, è un ambiente che continua a tornare nel tuo lavoro.

Legato alla fiaba il bosco è il luogo della scoperta, della perdita, dell’esperienza. Nel caso dei lavori  Il  bosco delle fiabe il contesto era sempre uguale, un luogo comune, stesso fondo di tanti personaggi. Un’immagine fotografica in bianco e nero che fungeva da contesto scenico all’azione dei protagonisti, specificando che si trattava più di un movimento mentale che fisico.

Sono dei ritratti? O, sono dei racconti di uno stato emotivo?

Inizialmente ciò che mi interessava mostrare proprio nel Bosco delle fiabe era un campionario di umanità, persone comuni, tratte da album di famiglia, che escono dall’anonimato per diventare dei personaggi rappresentativi di un determinato stato dell’uomo. Partono come ritratti e diventano espressione di una situazione emotiva.

Nei tuoi ultimi lavori c’è un ritorno al disegno, a cosa stai lavorando?

In questo periodo sto lavorando intorno al  tema della diffidenza, con dei personaggi che si negano ad una possibilità di rapporto o che difendono il loro spazio. Una negazione intesa nello stesso tempo come protezione della propria identità e rifiuto in senso più allargato, una negazione che vorrebbe essere in realtà un’affermazione più determinata di sé rispetto a tutto ciò che ci circonda. Mi piace pensare che una volta tanto la piccola Cappuccetto rosso sappia dire di no al lupo.

Intervista di Michela Alfiero in occasione della mostra “030 arte da Brescia”, 2003

 

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