La persona che resta, 2019

Gustose e dolcissime, Murano’s glass, detail

di Cristina Muccioli

(…) Dalle lacrime parte questa mostra, nella prima sala espositiva che si incontra entrando in Galleria. A terra sono deposte – il caso di dire, come vedremo – sculture in vetro di Murano di Armida Gandini (Gustose, dolcissime)[1]. Sembrano opere astratte, morbidamente piramidali, di una trasparenza acquorea. In fondo all’allestimento a terra di queste sculture è visibile un video, privo di colori, con un baluginio intermittente che si muove, lo percorre, lo svela.

Si tratta di un particolare tratto da una scena centrale sul compianto del Cristo nel Trittico dei Sette Sacramenti[2] del Quattrocentesco fiammingo Rogier van der Weyden, di un ingrandimento su parte del viso di Maria. Gandini non solo isola di tutta la composizione pittorica il volto della Vergine, ingrandendolo, ma toglie il colore. Toglie abside, vani forestati di colonne solenni nella chiesa di Poligny. Toglie cavalcata di archi acuti e vetri quadrettati in piombo, addobbi clericali e angeli che in volo srotolano cartigli, il purpureo San Giovanni che forte e contrito regge il corpo della Vergine vestito di un pesante drappeggio blu, il colore della fedeltà.

Gandini sbuccia l’opera proprio di quella palette che ha decretato la gloria, il successo internazionale dei Fiamminghi, scopritori della tecnica a olio. Brillanti e saturi come fossero laccati, ispessiti da lente caute velature traslucide di colore che permettevano di ottenere la sfumatura cromatica esatta desiderata, e di catturare tutta la luce possibile. I rossi carminio delle stole, i rosa pesca e i pallori illividiti negli incarnati dell’estrema unzione, i nocciola della lanugine riccioluta di un cane, i blu zaffiro delle vesti dei santi, i verde bandiera e quelli salvia di ornamenti e gemme, i neri impenetrabili del lutto, gli ori sfavillanti delle aureole: via.

Di tutto questo tesoro che inorgoglisce lo sguardo eroicamente esteriore delle opulente Fiandre Quattrocentesche, l’autrice si e ci sgravia, leva e solleva a favore di un’introspezione, di un mettere a nudo l’interiorità che da sempre è al centro dell’impegno di verità (naturale e psichica) della sua ricerca artistica. Colore, da coelor e non da color, nasconde. Soprattutto nasconde il disegno, che adesso si fa esoscheletro di emozioni ed espressività da cui siamo sempre stati distolti, distratti. Compare come per emersione, nel video Pulses[3] il volto di Maria ai piedi della croce.

Altrove, nel Trittico della Crocifissione[4], Maria è inginocchiata, ha la schiena dritta, come sostenesse il peso impossibile dello strumento di tortura e di morte del figlio; la sua guancia è adagiata al braccio inferiore, sul quale cola sangue. Rieccoci al tatto, al contatto, alla centralità di un corpo senziente, essudante e secernente sangue, acqua dal costato e lacrime dagli occhi. Qui, invece, nel Trittico dei Sette Sacramenti, Maria si sente mancare. Mantiene gli occhi aperti, non sviene, come accade durante le doglie del parto: per quanto elettivo e travolgente sia il dolore, non si perde conoscenza. Però può piangere, riesce a piangere, liberandosi dalla paralisi, dal rigor mortis che assale anche chi sopravvive. La sua guancia è irrorata di lacrime. Gandini le conta. Otto. Sono otto le gocce secrete dall’occhio di Maria, che finalmente può piangere, non come una dea assegnata a forze e destino sovrumani, ma come una donna.  Sigillata nel silenzio, nella compunzione più austera, piange senza serrare le palpebre, come appesa alla gruccia delle braccia di Giovanni, le ginocchia flesse di chi si accascia tramortito. Il senso della vicinanza, la possibilità di immedesimazione con una figura divina come Maria, ci è donata proprio da questi dettagli, tra i quali, con lenticolare attenzione fiamminga, Gandini si concentra su quello delle lacrime. Ai particolari degli elementi per noi oggi più insignificanti perché privati del loro ruolo simbolico, i Fiamminghi dedicavano devozione nella resa. Maria è in lacrime, finalmente. Siamo avvezzi a vederla austera, quasi distaccata e lontana persino nelle presentazioni del bambino ai pastori e ai Magi, forse presaga del destino atroce cui si avvia. Di questo cedimento emotivo, benedetto, si accorge Roland Barthes che, nel suo celebre Frammenti di un discorso amoroso[5], scrive: “da quando gli uomini e le donne hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la ‘sensibilità’ è tornata ad essere ‘sensibileria’? (…) Stando a Michelet San Luigi si affliggeva per il fatto di non aver ricevuto il dono delle lacrime; una volta sentì le lacrime scendergli dolcemente, e esse gli parvero gustose e dolcissime, non solo al cuore ma anche alla bocca”.  

Parlare di lacrime come un dono, significa che esse vengono offerte e ricevute. Poiché una scienza che nasca improvvisamente, senza una lunga gestazione prescientifica non è mai esistita, nonostante l’essere recente esito dello sperimentalismo positivistico della Psicologia e poi della Psicanalisi, si può individuare in questi autori tardomedievali e la cristallina chiarezza dei dettagli più dimessi, i prodromi del Perturbante freudiano. Rendono, infatti, domestico e intimo, vicino e quotidiano, ciò che si rivelerà essere lo spaventoso, il pericoloso, il mostruoso che ci si figurava alieno, distante, intruso. E che Maria, piangendo, accoglie.

Mitezza e forza sovrumana, ossimoro figurale, esistenziale. Gandini ne cerca quasi lo spirito, e come gli antichi Maestri scandaglia i dettagli, scopre le lacrime che, presi dalla sintassi compositiva e dalla vibrante stesura dei colori, non avremmo scorto. Sette come i giorni della settimana, come quelli della Creazione divina, che senza il sacrificio di suo figlio, l’Emmanuel, avrebbero avuto come epilogo sola morte senza resurrezione. Sette più una, il riscatto, la salvezza. Otto, il numero che, capovolto, è segno matematico di infinito. Otto come le beatitudini nel discorso della montagna[6]. Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

L’artista le conta, le studia una ad una, ne rivisita i contorni, le trasforma in corpi tridimensionali di vetro di Murano[7]. La sabbia passa dal fuoco, si fa da agglomerato grumoso materia rosso lavico, poi raffredda indurendosi e trattenendo la forma acquisita durante l’incandescenza. Il dolore brucia e forgia, brucia e conforma, ci cambia di stato, sedimenta e si trasfigura in lezione, in insegnamento, in sollievo. La lacrima, sofferenza e via d’uscita della sofferenza, sfugge alla logica binaria della tassonomia logico-calcolante, del principio di non contraddizione. È ‘e’ non è, invece di è ‘o’ non è.

Gandini trasforma la bidimensionalità del disegno in tridimensionalità della scultura. Inverte la rotta che ha decretato l’abbrivio della nostra modernità[8], la quale è nata sul presupposto esattamente contrario, recuperando l’opus del geografo Tolomeo che nel II d.C. aveva ridotto il globo in fogli, in mappe. Nella modernità, attraverso la prospettiva artificiale fiorentina, la profondità dello spazio viene riportata sulla superficie delle immagini dipinte e disegnate. Tutto è ridotto alla bidimensione che, totipotente, ne incorpora una. Gandini se ne riappropria con Gustose dolcissime.

La restituisce allo spazio. Magnifica, rende grande cioè, ogni lacrima, facendone leggerezza di luce e proiezione di ombra. Ne fa monumenti, pietre preziose miliari che si frappongono alla camminata dritta dello spettatore. Si fanno umile ostacolo, si fanno problema, parola che in greco voleva dire oggetto, da pro-ballo, getto avanti. In questa nuova dialettica tra bidimensione spogliata di maschera cromatica e tridimensione piena, pesante eppure scintillante e morbida in tutta la sua vitrea chiarità, lo sguardo rivisita lo schermo (Pulses) dove sul profilo di Maria a intermittenza pulsano le lacrime attraverso il lume di una candela accesa che l’artista faceva brillare sul retro dell’opera, forata in corrispondenza delle gocce.

Gesto di sublime com-passione, quello Gandini che rivitalizza un pianto lontanissimo rispettandone il silenzio. Maria è straziata, con il riserbo dei grandi, dei capaci, di è capax di una quantità di dolore che altri non potrebbero tollerare senza esserne squassati. Pensosa sempre, nelle sacre Conversazioni, nelle Annunciazioni, nelle presentazioni del bambino ai re Magi, e anche nelle Deposizioni. Maria è gravida, grave anche davanti alla croce. Pesante (piena, madre di dio piena di grazia) e pensante hanno lo stesso etimo. Ai piedi della croce patisce nuovamente il travaglio di dare alla luce la divinità del figlio.

Concepisce Il figlio. Da concepire, che è anche pensare, deriva concetto, e concepito. Il pensiero è sempre generativo. “Pensare”, scrive Michel Serres nella Premessa al suo Il mancino zoppo[9], “è inventare. (…) Pensare trova. Il pensatore è un troviero, un trovatore. Imitare ripete, il suo riflesso ritorna. Scoprire non capita spesso. Il pensiero, la rarità”.

E come ogni cosa rara, il pensiero di Maria inabissato nel dolore, brilla e pulsa con la luce fioca e rispettosa di Gandini come un cuore condiviso, nella luminosa via d’uscita pacificata dal più arduo dei compimenti, gustosa, dolcissima via, di lacrime altrimenti salate.


[1] Armida Gandini, Gustose Dolcissime, gruppo scultoreo in vetro di Murano, 2018. [2] R. van der Weyden, Trittico dei Sette Sacramenti, 1445 – 50, Museo Reale di Belle arti, Anversa. [3] A. Gandini Pulses, opera vincitrice del Premio Paolo VI 2018. [4] R. van der Weyden, Trittico della Crocifissione, 1443 – 45, Kunsthistorisches Museum, Vienna [5] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2014. [6] Matteo 5, Discorso della Montagna, Nuovo Testamento. Nella citazione, si parla di Jean Michelet, storico francese. [7] A. Gandini, Gustose dolcissime, 2018. [8] Su questi temi cfr. Franco Farinelli, Geografia e Crisi della ragione cartografica, entrambi Einaudi, Torino, 2008. [9] M. Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati e Boringhieri, Torino, 2016.  

Dal testo critico di Cristina Muccioli in occasione della mostra La persona che resta nell’ambito del festivalfilosofia 2019 di Modena-Sassuolo-Carpi presso la Galleria ArteSì, Modena

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