A PIU’ PIANI, 2017

In buone mani: Imperatore Adriano / Mi guardo fuori: Marguerite Yourcenar

Testo in catalogo di Federica Flore

Il filosofo Bernard Williams scrive giustamente una verità alquanto irrefutabile: <<qualcosa c’è in ogni caso>>. È questo avvicinarsi al significato dell’esistenza che porta Armida Gandini (Brescia, 1968) a costruire l’immagine, qualunque essa sia, ai fini di una scoperta, non solo personale; per lo più condivisa con l’osservatore, che, da esterno all’opera,  ne diventa così parte integrante.

Lo scambio tra l’artista e il suo pubblico innesca una relazione affettuosa, intima. Un viaggio nella conoscenza delle paure che possono fare emergere i ricordi, ma soprattutto la verità di quelle memorie. Esse affiorano. Si “rendono fiori”. Fioriscono. Si tratta di un processo di crescita, un’educazione all’insegnamento della trama del ricordo. Ma Armida Gandini, nonostante le numerose provocazioni, ci tiene a sottolineare che non si tratta di una memoria nostalgica, quella intorno alla quale si costruiscono le sue opere, piuttosto essa si identifica in un bisogno irriverente  e impetuoso, che serve per invecchiare, necessario ad un nuovo corso, accessorio alle palpebre, per schiudersi alla luce di ogni nuova mattinata. Il suo ritorno all’infanzia, quindi, si determina da sé come la base imprescindibile per l’età adulta, costruita nell’enfasi del gioco e razionalizzata con il tempo.

La struttura di produzione dei soggetti nelle costruzioni tecniche e sentimentali di Armida, però, non si deve associare ad un moto circolare, quello dell’eterno ritorno nietzschiano, ma è chiaramente un riferimento ad un contorno, un humus produttivo di fondo, che accompagna la crescita continua, certamente, ma irregolare.

Le opere di quest’artista vanno vissute; ci si rivolge ad esse con quell’attenzione di chi ascolta il dirimpettaio, perché è certo che abbia ancora qualcosa da dire dopo il saluto di convenzione. Armida è ontologica perché rimanere sulla superficie, per lei, non può e non deve bastare; ma è la scoperta il senso profondo della conoscenza reale.

Del resto, come può essere sufficiente trattenersi in superficie? Si può conoscere qualcuno esclusivamente  dalla sua pelle? Chiaramente, no. Il vissuto è esperienza. La conoscenza, che si risolve nell’azione e nel tempo, trovando il suo più profondo senso dell’essere nella curiosità e nel moto, è la chiave di lettura dell’artista bresciana e delle sue opere.

I lavori di Armida Gandini, per quanto dedicati alla memoria, infatti, lasciano vivere nel presente, permettono di assaporare il tempo senza esserne logorati e, soltanto attraverso uno sguardo attivo e di prospettiva più ampia, si fa largo la scoperta. Essa quanto più trova le sue radici nel passato, tanto più instaura una relazione solida con l’istante e con il mondo, con il sé nel presente, rivolto però al futuro. In questo contesto fecondo, la malinconia e la retorica lasciano lo spazio alla narrazione, più precisamente alle modalità di narrativa e alle capacità di collocamento dell’estetica, avvertita come mezzo per lo sviluppo della propria storia personale. Non manca così, ad ogni modo, la crescita storica.

La nostalgia del resto è conservatrice, mentre tra le opere di Armida Gandini si scorge un punto di svolta: esso sta proprio nel titolo della mostra, connotata appunto come antologica-ontologica.

A più piani coinvolge il potere della ripetizione, l’effetto dell’istante e le regole della condivisione di molteplici piani esistenziali, i quali restituiscono al mondo l’uomo come sistema complesso, capace di affrontare tempi e spazi multipli. È un messaggio positivo, di speranza naturale, dettata da quel senso di progresso, che contraddistingue, come suggerirebbe Hans Jonas, l’”homo faber” (colui che produce, quindi è in-atto) dal più essenziale “homo sapiens” (colui che conosce, ma ancora è in-potenza).

Narrativa anche come tensione, come dinamica umana, esclusività della parabola progressista. In questa prospettiva, non è possibile riconoscere un merito maggiore o minore ai diversi progetti; difatti, Armida Gandini esprime un significato di proiezione pratica in ogni sua opera. Si prenda la serie Il bosco delle fiabe (2000). Qui l’eternità del lavoro si riconosce nell’assenza di un panorama, di uno sfondo contestualizzante. Quando l’assenza di coordinate, ormai per l’uomo fondanti, vengono a mancare, come accadeva per le Madonne con il Bambino duecentesche, stagliate sull’oro zecchino ad indicare l’eternità di Maria; il bianco, che predomina in questo caso, paradossalmente è facile che sparisca dalla percezione dell’osservatore, il quale così potrà finalmente concentrarsi sull’enfasi simbolica dell’immagine singola e creare un rapporto empatico con l’opera. L’arte contemporanea, almeno quella dotta, riconosce l’urgenza di sentimenti ed emozioni in una società ingannata dall’apatia e dalla massa e ne ripropone versioni personali, interpretandosi come mezzo di contatto, senza vergogna alcuna.

A questo proposito, viene in aiuto una conversazione avvenuta tra Armida e me.

F: <<Questo legame con i personaggi di fiabe conosciute, fa sì che tu abbia un forte senso della narrativa. Di qui il concetto di stratificazione. Di qui, l’identità costruita o decostruita nel tempo? In alcune serie, quelle dove l’identità è supportata da un processo di liberazione, ad esempio in Casing, mi pare ci sia una scoperta lenta e paziente, più naturale se vogliamo, come quando si sbuccia con cura una mela, dove l’apparizione dell’immagine è decontrazione corporale. Mi sembra che i sensi umani, per te, si distacchino in qualche modo dalla morale del soggetto. Quando scrivi, sempre per Casing: ”Ciò che mi interessa è una sperimentazione sulla forma stratificata della griglia che supplisce alla rarefazione del corpo […]”, ciò che mi colpisce è proprio il bisogno che hai, come se fosse uno stato d’emergenza, di stratificare il corpo, come si percepiva l’umano nell’epoca classica: dall’esterno (fenomeno) all’interno (anima) […]>>.

A: << La narrativa, ma anche il cinema, è un modo di vivere tante vite, di fare molti incontri. Chi diceva, forse Eco, che “chi non legge vive una vita sola…“. Ma per me è anche una sorta di dialogo con personaggi/persone, che mi insegnano ad interpretare i sentimenti. Per questo spesso i miei lavori hanno una matrice letteraria, nascono in dialogo e confronto con alcuni autori/autrici, da qui il lavoro dei ‘Padri e delle Madri’, fondato sul concetto di eredità culturale, di affinità del sentire. Se è vero che la costruzione dell’identità si definisce nei primi anni di vita (io appassionata di psicoanalisi e pedagogia montessoriana credo in queste indicazioni), è vero anche che gli orizzonti si allargano e ridefiniscono il nostro stare al mondo in base alle esperienze che facciamo nella vita; ancora una volta, insisto su questo punto, in base agli incontri; quando per incontri io intendo quelli reali, ma anche immaginari, culturali, artistici. Perché dietro un libro c’è sempre un uomo (dico uomo nel senso di umanità), una persona con tutte quelle che sono le sue emozioni, bisogni, reazioni, vissuti ecc… e alcuni incontri ti aprono alla vita, altri rappresentano il rischio di una chiusura. Nella mostra di Amsterdam, Standing up, mi sono interrogata sulle questioni dello stare al mondo, di come rimanere in piedi nonostante (e nel nonostante ognuno ci metta quello che vuole).  Io credo che sia necessaria una struttura che io personalmente, corpo e pensiero fluido, non possiedo “naturalmente”. Un mio sogno ricorrente della giovinezza consisteva nel vedermi come un essere senza struttura ossea, una pelle priva di sostentamento […]>>.

Riflettendo su queste parole, emergono alcuni concetti fondamentali, dai quali scaturiscono alcuni dei lavori presenti in mostra. Con Armida Gandini, infatti, il pubblico si può innalzare ai concetti di libertà, di esplosione, relazionandoli con gli impulsi naturali e/o artificiali delle persone a servizio della costruzione di una società. In questo senso, le sue semisfere Campane di vetro, Rane in pancia, Noli me tangere, per esempio, appartengono al logorio claustrofobico che quest’era dell’iperrealtà ci impone, talvolta tralasciando la memoria, come rifugio sicuro,  dove poter essere sé-assente di giudizio.

La società occidentale è convinta di liberarsi e di distrarsi, posizionandosi per ore di fronte ai computer, ai tablet, camminando a testa bassa appannando con il respiro gli smartphone. Eppure, al contrario, questo comportamento imprigiona gli individui, che così, perdono di vista il rapporto veritiero con la Natura, con la Città. Armida, con tale processo creativo, libera se stessa e gli osservatori, provocandoli alla riflessione, con opere di grande o piccolissima portata fisica, ma sempre dall’estetica evanescente, pulita, sintetica, avvicinandosi, chissà se per volontà o no, anche alle filosofie orientali dello Zen e dell’arredamento Feng Shui, dove l’assenza interpreta, inversamente alla consuetudine contemporanea, il luogo in spazio. Nelle opere di Armida Gandini, si ritrova con piacere una costruzione armonica di strutture nuove, frutto di una sedimentazione temporale, che non segue la volontà umana, perché, quel tempo,  ne ha una tutta sua e ben più definita, rispettata ad ogni tratto di matita, ad ogni scena, ad ogni parola evocata.  La lettura dei lavori di quest’artista, porta con sé la paura di scoprire, in qualche modo, la rarefazione, la vulnerabilità, la fragilità e la precarietà dell’umano contemporaneo. Nei progetti come Vie di fuga (2016), ad esempio, Armida ha l’obiettivo di renderci il pubblico consapevole, di comunicarci una possibile perdita: del sé, della comunità. Per tale motivo che l’intera produzione, per essere compresa, è meglio leggerla al contrario: direttamente dall’interno. Le immagini, in questa prospettiva, diventano emergenti, libere, appena affacciate sul mondo: non immagini ingabbiate, dietro reti metalliche o sbarre (come del resto si rischia di interpretare l’opera se letta appunto dall’esterno verso l’interno).

Qualcosa succede, dunque, i personaggi agiscono, anche se la loro azione è più mentale che fisica, sono statici solo in apparenza, in realtà si fanno avanti, talvolta si animano prendendo colore. Arte e benessere, libertà e verità: sono queste le proporzioni della vita di Armida Gandini e, in questo senso, i suoi lavori emergono come terapia per una crescita nel dolore, causato dal distacco dall’età fanciullesca. E, per quanto si continui ad utilizzare le favole come medium, esse rimangono capisaldi tanto  nel bambino quanto nell’adulto.

Fin dall’inizio, si è detto come lo sguardo ricorrente e interrogatore della memoria dell’artista sia stato fondamentale per scoprire la sua materia, i suoi rifugi, le sue esperienze. Per tale motivo, è  nata la necessità di vedere un’identità-in-costruzione – di Armida, di tutti – dove poter passare dalla mera indagine alla costruzione di una “protezione” di un corpo che è stato una difesa per  quel che sarà. Il dubbio resta nella rarefazione dell’individuo dietro questi strati. Ma sono solo tutti veli di Maya, da squarciare con forza e darsi al visibile. La realtà rimane, quindi, un contenitore troppo caotico per aggiungere atti sospesi, lasciamo che tutto venga esperito con un continuo ragionare d’emozione, nella completezza dell’essere una persona.

Testo di Federica Flore in occasione della mostra A più piani presso Archimania, Sanremo, 2017

I commenti sono chiusi.