Armida Gandini in conversazione con Marco Nember, 2016

Casing, 2016, mixed media on paper, cm 29 x 21

L’evoluzione artistica di Armida Gandini si è arricchita nel corso del tempo di simboli divenuti oggetto della riflessione dell’artista in differenti accezioni e declinazioni. In uno spazio privo di coordinate la presenza di una rete assume un’importanza fondamentale nel definire non solo la porzione di piano interessata, ma anche e soprattutto nel dialogare con la presenza umana che anima l’opera. Come si è trasformata negli anni la tua visione di un simbolo tanto potente quanto equivocabile?

La domanda coglie nel segno il concetto di fondo della mostra. Se nel 2009 la rete era metafora di un ostacolo da fronteggiare e superare, oggi è anche impalcatura a cui appoggiarsi. Il limbo illimitato nel quale si muove la protagonista di Io dico che ci posso provare, privo di coordinate, si trasforma in uno spazio astratto più labirintico di un labirinto reale. Ho realizzato che l’apparente libertà del bianco può diventare spaesante, mentre il confronto con il mondo tangibile si fa più concreto nel momento in cui si materializzano le griglie delle barriere. Per questo non si tratta solo di elementi esterni che segnano un territorio, delimitano dei confini e costruiscono dei luoghi, ma di strutture che sostengono conferendo al corpo e al suo pensiero un ‘ordine’. In sostanza dei punti di riferimento che rendano possibile il nostro orientamento nel mondo.

La complessità del tuo pensiero si mostra attraverso opere molto diverse tra loro: dal disegno al video, utilizzi una gamma di output in grado di costituire di per sé un valore aggiunto inconfutabile al continuo processo di investigazione di realtà personali ed immaginario collettivo da sempre alla base del tuo lavoro.

Si, è così (ora che ci penso mi viene il dubbio che anche questa sia una conseguenza della mia liquidità corporea e mentale…). Ho una propensione ad affrontare il progetto da prospettive diverse, anche dal punto di vista linguistico; se il disegno è alla base del mio modo di lavorare spesso il processo sconfina nella fotografia e nel video. Devo specificare che questa mostra nello specifico rappresenta una sintesi nella quale confluiscono varie ricerche passate: non è un caso infatti che ritornino le mie alter ego con le trecce, le donne del progetto ‘Mi guardo fuori’, le immagini degli album di famiglia e le stratificazioni dei ‘Luoghi della memoria’, nei quali il disegno si sovrappone alla fotografia e il corpo si identifica con l’ambiente in cui è contestualizzato.

Avventurarsi seguendo le tue coordinate permette un viaggio intimo e colmo di spunti riguardanti la tua ispirazione e i tuoi ripensamenti. Come hai scelto queste immagini, accomunabili al tuo DNA morale e culturale?

Di fronte a certe immagini scatta un meccanismo di identificazione e ci si riconosce; immediatamente riaffiorano memorie, esperienze vissute, avvenimenti passati. Nella fotografia di Frida Kahlo per esempio il dettaglio delle trecce mi ha confermato, potenziandola, la sintonia per la quale già prima l’avevo inserita nel gruppo delle madri della cultura. Se c’è una donna che ha lottato una vita per tenersi in piedi nonostante tutto quella è Frida. Mi sono chiesta cosa resta quando il corpo viene negato (perché fragile, perché ammalato, perchè sofferente o a disagio) senza una base strutturale che ci faccia da scheletro… La serie di ‘Coordinate’ è un tentativo di risposta a questa domanda. C’è un’immagine di cui ti vorrei parlare – tu conosci la mia ossessione per il cinema e quanto sia stimolante per me – che mi ha accompagnato durante il lavoro apparendomi davanti quando meno me l’aspettassi: sicuramente ricorderai il piano sequenza che chiude il film di Claude Sautet ‘Nelly & Monsieur Arnaud’, con una Beart bellissima e altera che cammina tra la folla di Parigi a testa alta, reagendo così all’abbandono … credo che Sautet sia stato una fonte di ispirazione per questa mostra.

Il cinema costituisce una fonte di ispirazione inesauribile per te sotto diversi punti di vista estetici e morali. In che modo i film di Sautet ti hanno aiutato a plasmare il contenuto della mostra?

Sautet è uno dei miei padri e i suoi film scorrono di fronte allo spettatore come se assistesse allo svolgersi di sequenze di vita reale, quelle che ti trovi davanti guardando dal finestrino di un autobus o comodamente seduto su un divano. Nelle ultime pellicole di Sautet la presenza di Emmanuelle Beart va anche interpretata come un omaggio all’indimenticata musa Romy Schneider, considerata dall’attrice più giovane un modello di ispirazione di femminilità oltre che professionale. Di Sautet mi commuove lo sguardo sulla quotidianità, ma ancora emozionale, un poco all’antica, elegante e disincantato; ma anche il gioco di autocitazioni, rimandi, ritorni personali… oserei dire che le trecce che accomunano le mie protagoniste corrispondono allo chignon delle sue. Di questi autori, Sautet ma anche il mio amato Rohmer, mi ha sempre affascinato la leggerezza, in realtà apparente e sostenuta da un meccanismo stilistico impeccabile, e la mancanza di teatralità.

In ‘Stand Up’ il tuo intervento su immagini bidimensionali ne scopre le qualità architettoniche suggerite dalla composizione dell’inquadratura: la tua rilettura le trasforma in sculture inattese, imprevedibili nella loro fragilità. Da dove nasce questo tuo desiderio d’intervenire sulla fotografia?

Da sempre la fotografia è un punto di partenza del mio lavoro: il più delle volte si tratta di immagini non scattate da me, ma trovate negli album di famiglia, in banche dati, incontrate sfogliando libri e riviste. Decontestualizzarle e inserirle in nuovi ambiti è una pratica che adotto spesso, scontornando, disegnando, in questo caso incidendo. Spostare il piano delle fotografie da orizzontale (quindi bidimensionale) a verticale è l’intento che mi ha mosso in questi ultimi lavori; un gesto molto semplice per tentare di far ‘stare in piedi’ ciò che è sdraiato, a maggior ragione perché fragile, quasi inconsistente.

Gli involucri disegnati di ‘Casing’ al tempo stesso custodiscono e accentuano, ridefinendo con passione immagini di forte valore espressivo, inserendosi con naturalezza nel tuo percorso artistico.

Devo dire che la serie di ‘Casing’ è una ricerca abbastanza isolata nel mio percorso, un tentativo di dare solidità a corpi evanescenti colti in fotografie commerciali, quelle che si scorrono più o meno distrattamente sfogliando le riviste in una sala d’attesa. Non si tratta di un lavoro a sfondo antropologico, nonostante potrebbe apparire visto che parte da immagini di tendenza. Ciò che mi interessa è una sperimentazione sulla forma stratificata della griglia che supplisce alla rarefazione del corpo nel formato standard della pagina stampata. Un’altra occasione per guardare al progetto da una prospettiva diversa.

Dalle tue parole mi sembra apparire con chiarezza un’indomita volontà di combattere, costruire, crescere in grado di permeare completamente la tua opera, in ogni sua forma. La lettura e la ridefinizione dell’universo che ti circonda credo si stia riformulando: ai miei occhi non risulta solo come la conclusione di un processo, quanto piuttosto parte fondamentale di un ragionamento in divenire, il che permette costantemente la possibilità di ricontestualizzare il tuo lavoro alla luce di nuove realizzazioni, incontri e scontri.

Un destino nel nome: Armida = donna che combatte. Sono una persona piuttosto concreta, ma ogni tanto mi diverto con le simbologie; se ti dicessi che il numero nove, giorno della mia nascita, tra le altre cose sembra che indichi mancanza e associato alla mancanza il desiderio, si spiegherebbero molte cose…

Marco Nember Novembre, in occasione della mostra Standing up, Red Stamp Art Gallery, Amsterdam, 2016

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