Rane in pancia, 2006

Rane in pancia (hop), 2006, lambda print and ink drawing on plexiglass, Ø cm 25

di Marco Nember

D: Cosa racconta Rane in pancia e come si è sviluppato il progetto nello spazio della galleria?
R: Da qualche tempo sono interessata al concetto di vuoto inteso come momento di transizione e non come assoluto: fare vuoto dentro e fuori di noi é indispensabile perché ci sia rigenerazione, scoperta dopo la perdita. Rane in pancia deriva da questo approccio al concetto di vuoto, inteso come necessità di fare piazza pulita e di ricominciare in una condizione di leggerezza. Lasciar fluire… svincolarsi dai condizionamenti, emanciparsi dalla malattia, sganciarsi dagli schemi, per ricominciare, agire, per esserci. 
Il progetto si è sviluppato pensando a un’esplosione di energia che avrebbe invaso lo spazio della galleria con elementi aggettanti e dinamici, che raccontassero di un’esperienza in divenire.

D: L’uso di simboli (in questo caso bolle, rane, girini ma anche piume, fiori, soffioni) contribuisce in modo determinante a focalizzare il senso del tuo lavoro. Puoi raccontarmi come è nata l’ispirazione e ha preso questa forma?
R: Le bolle avvolgono i girini in procinto di diventare adulti: così le semisfere trasparenti sono forme ricorrenti nei miei ultimi lavori e associano per stratificazione immagini fotografiche ad interventi di disegno che, in questo caso, rimandano ad una condizione di passaggio (la rete o l’elastico intrecciato) o ad un’idea di sospensione, di attesa, accompagnati dalla paura della scoperta e l’incertezza che il cambiamento può portare. La sovrapposizione di vari piani che unisce immagini realistiche a immagini simboliche, mi permette di evocare situazioni più che descriverle, perché ciò che mi interessa non sono tanto le azioni fisiche dei miei personaggi, ma le loro reazioni interiori.

D: L’evoluzione e la mutazione sono elementi che ricorrono nei tuoi progetti: come nasce il tuo interesse per i “momenti in cui le cose cambiano” ed in particolare per l’adolescenza?
R: M’interessano le situazioni aperte, in movimento, e quelle dell’infanzia e dell’adolescenza sono fasi caratterizzate da esperienze decisive, ma in evoluzione, dove tutto è ancora possibile. Mi piace pensare che le situazioni della vita non siano statiche, ma fluttuanti. C’è un testo del Vecchio Testamento che vorrei citare a proposito e che mi ha accompagnato in questo lavoro, Qohelet e l’interpretazione che Cacciari ha esposto in una conferenza a Brescia: l’oscillazione fra gli opposti, l’idea di un movimento altalenante fra due poli. Nell’Ecclesiaste questa idea ritorna nella concezione del tempo ed è alla base dell’esistenza di ognuno di noi: la fluttuazione fra gli estremi genera instabilità, mancanza di equilibrio, incapacità di prevedere e vanità del progettare. La minaccia, l’incognita, ci obbligano a compiere passi da acrobati, come se fossimo sospesi e sotto di noi ci fosse il vuoto…

D: Racconti la difficoltà di vivere e di mantenere un equilibrio, in questo caso l’instabilità dei giovani. Cosa ti porta a cercare questo tipo di emotività e a trasferirla nelle tue opere?
R: Sono convinta che la condizione del funambolismo sia molto diffusa nella contemporaneità e credo che la fase dell’adolescenza, considerandone l’estensione temporale, possa esprimere efficacemente questa situazione esistenziale. Non a caso, alla base del progetto che espongo presso l’Università Cattolica – nell’ambito della Biennale di Fotografia in una mostra collettiva con Paola Di Bello e Alessandra Spranzi – protagonisti di questa avventura sono degli adolescenti un po’ cresciuti che si muovono claudicanti in uno spazio privo di riferimenti cardinali (gli studenti del corso di organizzazione di eventi artistici dello S.T.A.R.S., condotto da Piero Cavellini). Dal vuoto, il bianco della pagina, si affacciano su mondi più mentali che reali, e si confrontano con le loro paure, i dubbi, le incertezze di chi ha ancora tutto da perdere, ma anche da ritrovare e vivere.
Formalmente il lavoro si realizza in semisfere di plexiglas, che riproducono all’interno immagini fotografiche di giovani acrobati e, all’esterno sulla calotta, disegnati con la china, elementi che comunicano rischi e pericoli provenienti dal mondo della natura o dal quotidiano.
All’interno di questo percorso ho previsto una videoproiezione: il video è costruito attraverso due immagini stratificate che affiancano anche linguisticamente le due concezioni del tempo: una statica che esprime ripetitività e la seconda che comunica l’idea della successione degli eventi, di un tempo istante che ritorna, ma che è sempre diverso dal precedente e dal successivo. Le sequenze video mostrano contemporaneamente una ragazza che soffia le bolle e bolle che si muovono sul fondo liberamente, a cui sono state sovrimpresse alcune frasi dell’Ecclesiaste riguardanti il tempo e la vanità.

D: Come scegli le protagoniste dei tuoi lavori? quanto il soggetto ritratto si fonde con l’opera o al contrario quanto ne è solo interprete?
R: Si tratta di persone con le quali ho stabilito una relazione: nel caso di Rane in pancia la protagonista è una mia allieva dell’Accademia (insegno alla Laba di Brescia), mentre per quanto riguarda l’installazione della Cattolica, ripeto, ho fotografato gli studenti del laboratorio a cui sono stata invitata a collaborare, in quanto protagonisti abituali di quello spazio.

D: Come sono nati i progetti realizzati per la biennale di fotografia?
R: In occasione della mostra presso la galleria Nuovi Strumenti presento una video installazione intitolata Cedi? Non cedo, del 2003, che sottolinea lo scarto che spesso intercorre tra realtà e finzione. Il video è realizzato recuperando un vecchio film 8 degli anni ’70, girato con una macchina da presa amatoriale da un’operatore dilettante, quale può essere un genitore che riprende i suoi figli bambini durante un pranzo di famiglia. Il film mostra due ragazzini che giocano in un prato a picchiarsi e agiscono in funzione della macchina da presa che li sta riprendendo, a discapito del bambino più piccolo che fra colpi e spintoni rischia di avere la peggio. Ricordo di aver pensato come fosse frequente nella quotidianità agire per degli spettatori e, d’altra parte, assistere passivamente per non interrompere un’azione. Frequente e pericoloso, perché l’immagine scorre come se tutto fosse finzione, la realtà come un fatto di cronaca. Per aumentare ulteriormente la distanza tra visione e spettatore, il video verrà proiettato su una grata/barriera che caratterizza l’architettura dello spazio espositivo.

Intervista di Marco Nember pubblicata sul quotidiano Il Brescia in occasione della mostra Rane in pancia presso Fabio Paris Art Gallery, Brescia, 2006

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