INTERVISTA DI GABRIELE LANDI PER “PAROLA D’ARTISTA”

Ciao Armida, guardando al tuo lavoro la prima cosa che mi viene in mente sembra essere una tua necessità di suscitare nello spettatore la voglia di creare delle connessioni fra le immagini che usi nel tuo lavoro. E’ così?

Penso tu abbia colto un tasto molto sensibile del mio modo di lavorare, del quale io stessa ho preso maggiore consapevolezza attraverso le personali degli ultimi anni, progettate ad hoc per luoghi specifici intorno a progetti mirati. Indagare una tematica mediante prospettive diverse, spaziando dal disegno alla fotografia, dal video all’installazione,  credo sia un modo per attuare una riflessione che  diventa allestimento nello spazio e che si compie nella relazione fra le opere. In effetti – sto realizzando in questo momento – difficilmente lavoro ad un’immagine decontestualizzata da un progetto più ampio; forse per questo motivo procedo spesso per serie e work in progress, come se la singola immagine non bastasse a se stessa, ma si arricchisse nel rapporto e confronto con le altre.

E siccome mi piace condividere, coinvolgo lo spettatore in questo processo…

Hai mai raccolto le impressioni degli spettatori come una specie di restituzione?

Posso dire che mi incoraggia percepire una corrispondenza e sono sempre lieta di sapere che attraverso il lavoro possa passare una comunicazione. Per esempio nel caso dell’ultima mostra, La terra e le fantasticherie, in cui una sezione è dedicata alla mia ossessione per Marnie di Alfred Hitchcock, mi ha fatto molto piacere apprendere che molte persone abbiano manifestato il desiderio di vedere o rivedere il film per conoscere un capolavoro della storia del cinema, ma anche per meglio comprendere le suggestioni visive che mi hanno portato a sviluppare questo progetto.

Parlami del progetto su Marnie

Tutto nasce molti anni fa – ero una ragazzina – quando accendendo la televisione appare l’inquadratura iniziale, quella di una donna che cammina sulla banchina di una stazione con una borsetta gialla sotto il braccio. Avendo perso i titoli di testa non so nulla del nome del film e del suo autore, che scoprirò molto più avanti nel tempo. Però le immagini che scorrono sono ipnotiche e io ne rimango affascinata. Marnie è un leitmotiv ricorrente, una di quelle esperienze che aprono  gli orizzonti e accendono delle passioni. Un incontro culturale non meno importante di un incontro reale. La mia storia artistica è costellata di questi incontri a cui ho reso omaggio con elaborazioni visuali. Il progetto dedicato a Marnie è complesso, multimediale: è costruito immaginando una dimensione immersiva dove il colore rosso, legato al trauma della protagonista, diventa il focus attorno al quale ho rielaborato le immagini, lavorando sui temi del contatto, dei dettagli rivelatori, del sipario come soglia verso il mondo delle fantasticherie. Ma c’è anche una lettera realmente scritta a Marnie Edgar, spedita all’indirizzo indicato nel film e naturalmente ritornata al mittente. Una sorta di dialogo con personaggi letterari o cinematografici, così emblematici dell’umano e, paradossalmente, più reali delle persone in carne ed ossa, più vicini alla vita proprio perché estraniati dalla vita. E’ un gioco di immedesimazione al quale sono particolarmente predisposta.

Armida la fantasticheria viene dalla tua infanzia? Come fai a tenerla viva?

Credo che sia la fantasticheria a tenermi viva … ho un aneddoto legato alla mia infanzia che nella mostra ho voluto rievocare con l’esposizione del mio libro di fiabe, Le novelle meravigliose di H. C. Andersen. Ricordo perfettamente che era una mattina d’estate e mi annoiavo; avrei voluto giocare ma i miei amici non erano disponibili, oppure erano in vacanza. Così mi lasciai convincere da mia mamma a prendere in mano il libro che Santa Lucia mi aveva portato l’inverno precedente; l’avevo solo sfogliato limitandomi a guardare le immagini. Durante l’anno però avevo imparato a leggere. Così presi un plaid, il volume delle fiabe e mi sdraiai sotto l’abete del giardino di casa. Ero arrabbiata perché mi sembrava una sorta di castigo. Invece successe qualcosa di straordinario: piano piano le novelle meravigliose mi introdussero in un universo accogliente che alimentava la mia immaginazione; parevo immobile e inattiva ma dentro di me vivevo grandi avventure. Da quel momento la terra fresca sotto la mia pancia, che poi non è altro che l’esperienza diretta del mondo, ha sempre avuto un legame con le fantasticherie.

Nel dipanarsi di questo mondo che importanza hanno i materiali che impieghi per realizzare i tuo lavori?

I materiali sono molto importanti, così come gli strumenti e i formati delle opere. Mi piace sperimentare e sono affascinata dalle potenzialità delle materie, ma le ho sempre scelte in base al progetto vagliando varie ipotesi di impiego. Per esempio lavorando sulle stratificazioni ho spesso utilizzato materiali trasparenti, come il vetro, che ritorna in forma diversa nelle 8 gocce di Gustose e dolcissime: in questo caso l’esigenza di simulare la consistenza delle lacrime sedimentate nel tempo mi ha portato ad usare sculture di vetro pieno realizzate in una vetreria di Murano. Geografie umane invece consiste in una serie di sagome ritagliate da vecchi tappeti usati: l’idea della migrazione nella storia dell’uomo fino ai viaggi forzati contemporanei, la necessità di trovare un proprio posto nei tracciati delle mappe del mondo, mi hanno indotto a scegliere il tappeto come supporto che evoca, già di per sé, il tema della casa e del bisogno di casa. Certo occorre avere consapevolezza dei propri mezzi … non è possibile improvvisare. Il fatto di passare da un materiale all’altro, implica ogni volta il mettersi in discussione, l’affinare le proprie abilità affidando in certi casi la realizzazione del lavoro a persone più competenti: i miei video di animazione per esempio li ho sempre fatti montare in postproduzione ad un professionista del settore.

La dimensione del tempo che ruolo ha in quello che fai?

Un duplice ruolo, perché nel mio lavoro sono presenti la dimensione fisica del tempo e quella culturale. Uno dei miei maestri, Silvano Petrosino (protagonista del progetto In buone mani), è solito ripetere una frase molto interessante: “Il tempo dell’uomo ha un nome stupendo. Si chiama Storia, ed è fatto di errori, tentativi, spinte e rallentamenti.” Ho lavorato molto sul tema della memoria individuale che si relaziona nelle esperienze di vita con quella sociale /collettiva. Per questo sono affascinata dalla dilatazione del tempo e, forse, anche per questo amo molto il cinema. I miei video, soprattutto quelli degli ultimi anni, coincidono con un’unica inquadratura che si estende in loop, potenzialmente all’infinito. Pulses si sviluppa partendo da un dettaglio del volto della Madonna del Trittico dei sette Sacramenti di Van der Weyden, che ho animato esaltando con la luce le lacrime che scorrono sul suo viso fino a formare, con una lentezza ostentata, una costellazione. In questo caso il tempo si rapporta con la percezione che lo spettatore ha dell’immagine, nel suo estatico stare, semplicemente. Senza dubbio la visione del video mi ha dettato la produzione di Gustose e dolcissime, l’installazione nello spazio è nata proprio come conseguenza di questa visione del tempo.

In questa dilatazione lo spazio che ruolo gioca?

Lo spazio dell’immagine o lo spazio che la ospita? Nel mio caso parlerei di una relazione tra i due, visto che frequentemente la forma bidimensionale della superficie diventa volume nello spazio. Mi spiego meglio e ancora una volta ti faccio un esempio: i lavori recenti sulla sagoma e sul corpo nascono da un progetto del 2016, quando Fondazione PInAC mi aveva chiesto di partecipare ad una campagna in sostegno di una famiglia curdo-siriana con un’installazione che affiancasse la mostra dei disegni della stessa realizzati nel campo profughi. Con un gesto molto semplice ho trasferito alcuni dettagli, decontestualizzandoli e cambiando i formati, nella materia sensibile del tappeto, disponendo le sagome a terra e consentendo alle persone di entrare fisicamente nell’installazione a pavimento. Un modo diverso di vivere il rapporto con le immagini disegnate sui fogli degli album: ciò che avevo in mente era di permettere allo spettatore di attraversare la storia della famiglia con il proprio corpo mediante un’esperienza diretta. Io stessa ho cercato di scoprire il legame che esiste tra  una forma visibile e il sentimento che la sua proiezione comunica.

L’intervista, a cura di Gabriele Landi, è stata pubblicata il 28 agosto 2022 sulla pagina facebook di Parola d’artista al link https://www.facebook.com/paroladartista

I commenti sono chiusi.