La fiaba soave della memoria, 2002

Hänsel  e Gretel, digital print, cm 30 x 40, 2016

di Giuseppe Rago

(…) Nelle ultime opere esposte presso la galleria Studio 34 di Salerno, Armida Gandini costruisce, all’interno di un profondo box in legno, tre livelli di elaborazione costituiti da fogli di acetato e di carta che si sovrappongono non a caso, ma seguendo il tempo misterioso del coagularsi della memoria involontaria e del ricordo. Il livello più profondo, fotografato e stampato, oppure disegnato, scansito e stampato, rappresenta spesso un bosco, immagine fuori fuoco della propria memoria; nel foglio successivo appare la propria infanzia, mentre in superficie l’epifania paradigmatica della fiaba si visualizza attraverso delle frasi tratte da alcuni tra i più noti racconti.  

Sono opere, queste, che raggiungono la qualità rara della leggerezza pensosa: immagini lentamente acquisite, la cui costruzione si fonda sul duplice assunto dell’evanescenza e del silenzio. Un alone indistinto ci rende da subito consapevoli della mancanza di ogni certezza di senso. Sono immagini, quelle di Armida, tanto più ambigue e sfuggenti, quanto più appaiono colme di innocenza e soavità.

La compresenza di testo e immagini, inoltre, ci illude solo fuggevolmente che l’artista voglia fornirci uno strumento di comprensione: le parole della fiaba, con subdola consapevolezza, prima ci introducono nel senso dell’immagine, illudendoci dell’esistenza di codici, di una semiotica condivisa, per poi svelarsi quasi da subito inadeguate o incongrue. Parole e immagini, infatti, paiono non collimare; le frasi sembrano spostare beffardamente il fuoco del loro obiettivo, illustrandoci il meccanismo di una costruzione certo non estranea a una lucida, inquietante ironia. Tali frasi, tuttavia, sono indispensabili nel far sì che la stratificazione assolutamente personale della memoria umbratile si universalizzi, coralizzando il messaggio.

Sovrapposizioni di costruzioni oniriche, persone, cose, luoghi, suggestioni, non addensano lo spazio, ma tendono a svaporare; le immagini dell’esperienza individuale, di fotografico iperrealismo, si proiettano e si intrecciano a quelle della memoria inconscia collettiva, all’elemento ancestrale (rappresentato, di volta in volta, dalla bestialità animale, dalla natura panica, dalla storia sepolta, di scavo), evocato al contrario in maniera nebulosa o attraverso pochi tratti volutamente naif. È su questo sfondo che l’infanzia dell’artista proietta la propria ombra, a voler misurare lo spazio, ma anche a visualizzare il percorso “a rebour” verso quell’indistinto magmatico.

Sembra, a volte, che Armida voglia costruire veri spazi metafisici, non più addensando materia pittorica in uno spazio infine saturo e claustrofobico, ma contrapponendo sapientemente immagini traspiranti, lievitazione progressiva e profondità prospettica tradizionale, cose concrete e segni che, come i pensieri, paiono attimalmente segnati sull’acqua che scorre.

Alla suggestione metafisica ci sia permesso di accostare quella di Magritte, per il gusto delle associazioni incongrue, per una rappresentazione della realtà sempre pronta a svelare il suo doppio.

Quello che ci conforta più di ogni altra cosa, tuttavia, è la costante vibrazione poetica, quasi un tono, costante e ispirato, di elegia. Occorre ribadirlo, l’unica lettura possibile di queste opere è quella che lascia nella mente un senso di inafferato, il rimpianto di non aver compreso, la sensazione di un’illuminazione di poesia e di verità troppo poco a lungo vissuta davanti ai nostri occhi. È come nel primo attimo del risveglio, quando, non afferrato ancora l’abito del nostro io quotidiano, “più spogli dell’uomo della caverna”, percepiamo soltanto il dolore sottile di non essere più capaci di afferrare ciò che un istante prima, nel sogno, avevamo così chiaramente percepito.

A rimanere è la consapevolezza che, forse, per dirla con Proust, “l’immobilità delle cose intorno a noi  è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero di fronte a loro”.

Molti avranno posto attenzione al fatto che, come nella sua opera, così nel suo nome Armida sembra evocare la favola e il sogno, mitologie di terre sante, funambolici percorsi ariosteschi: anche qui la fiaba, in virtù della forza universale dell’arte, trascende le dicotomie realtà-sogno, fantasia-possibilità. E anche qui l’arte è capace di ricondurre il proprio passato non soltanto al sé, ma anche agli altri, poiché nell’arte la narrazione dell’io non diviene mai soliloquio autoreferenziale, esercizio terapeutico dell’inconscio, ma, al contrario, indizio di una intuizione di senso naturalmente condivisa. Con la favola, è bene dirlo, qui torna il rimosso della nostra coscienza e della nostra innocenza, ma pure lo stimolo a guardare il profilo inconsueto delle cose, la speranza della rigenerazione nel fantastico. Speranza che, in definitiva, riscatta il disagio contemporaneo per la perdita di ogni rassicurante certezza gnoseologica.

Giuseppe Rago, La fiaba soave della memoria, testo critico tratto da Casa Mia Decor, settembre 2002 in occasione della mostra presso Galleria Studio 34, Salerno

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